14. Una pagina apocrifa di Emanuele Severino sull’Intelligenza artificiale.

Emanuele Severino (1929–2020) è stato uno dei filosofi italiani più radicali e originali del Novecento. Allievo di Gustavo Bontadini, ha insegnato a lungo all’Università Cattolica di Milano e poi a Venezia. Nel 1970 fu allontanato dall’insegnamento cattolico per le sue tesi considerate incompatibili con la dottrina cristiana.
Al centro del suo pensiero sta l’idea che tutta la tradizione occidentale — dalla Grecia antica alla scienza moderna — sia segnata da un errore originario: credere che le cose nascano e muoiano, cioè che l’essere possa diventare nulla. Per Severino, invece, ogni ente è eterno: ciò che è non può mai non essere. Questa visione lo ha portato a leggere in modo originale la storia dell’Occidente: la religione, la filosofia, la politica e soprattutto la tecnica sono per lui espressioni diverse della stessa fede nel divenire. Tra le sue opere più importanti: La struttura originaria (1958), Destino della necessità (1980), Filosofia del futuro (1989).


L’Intelligenza Artificiale appare oggi come la grande svolta della storia. Viene descritta come un nuovo Prometeo che accende il fuoco della conoscenza, come un alleato che accompagna l’uomo, o come un mostro che lo minaccia. Ma il suo significato più profondo si coglie solo guardando al filo che attraversa l’intero cammino dell’Occidente: la fede che l’essere possa non essere. 
Dire che qualcosa nasce significa affermare che prima non era, e che dal nulla è stato tratto all’essere. Dire che qualcosa muore significa pensare che ciò che era viene ricondotto al nulla. Ma questa è una contraddizione logica. Non si può dire che l’essere non è: in quell’atto si nega ciò che si afferma, come chi volesse spegnere il sole con il fiato. È un linguaggio che si annienta da sé, un pensiero che crolla sotto il proprio peso. 
Eppure da millenni l’Occidente vive dentro questa contraddizione. Ha costruito i suoi templi e i suoi palazzi sul terreno instabile del divenire: dèi che muoiono, valori che tramontano, poteri che si dissolvono. La tecnica, e con essa l’Intelligenza Artificiale, non fa che portare a compimento questa fede. È come una macchina lanciata senza freni lungo un pendio: non ha più bisogno di una meta, le basta accelerare. Crede solo nel potere di produrre e distruggere senza limiti. 
L’IA è il volto più appariscente di questa corsa. Se perfino l’intelligenza, il tratto che l’uomo credeva irriducibilmente suo, può essere costruita e annullata, allora nulla sembra più al sicuro. Tutto diventa disponibile, reversibile, intercambiabile, come merci sugli scaffali di un supermercato cosmico. Ma l’apparire e lo scomparire delle cose non è la loro nascita e la loro morte. Ogni ente, anche il più effimero, resta per sempre nell’essere. Ciò che è, non può mai non essere. Questa verità è come una roccia che non cede, mentre sopra di essa l’umanità ha eretto castelli di sabbia destinati a dissolversi. 
L’IA, allora, non è la salvezza promessa. È piuttosto uno specchio che riflette la grande illusione: che il nulla possa vincere sull’essere. La filosofia del futuro non consiste nel moltiplicare strumenti sempre più potenti, ma nello spezzare questa contraddizione millenaria. Solo allora apparirà che nessuna macchina può creare o distruggere l’essere, perché l’essere non nasce e non muore: è eterno.


Ho inventato, con l’aiuto dell’IA, questa pagina “mai scritta” per sottoporre l’IA stessa al tribunale della ragione, nel senso kantiano. La tecnica è limitata o illimitata? E che significato ha nel destino dell’umanità?

Per rispondere, conviene distinguere due modi di dire destino.

  1. Destino come necessità: ciò che non può essere altrimenti.
  2. Destino come scelta di senso: la direzione che decidiamo di dare alla nostra vita comune.

Quando l’uomo scambia la tecnica per il destino nel primo senso (necessità), succede qualcosa di preciso: il mezzo prende il posto del fine. La politica diventa logistica, l’etica diventa “compliance”, l’educazione addestramento, la ricerca una corsa senza traguardo. Non chiediamo più perché fare qualcosa, ma solo come farlo più in fretta, più grande, più efficiente. È il passaggio silenzioso dal potere fare al dover fare: ciò che è possibile appare immediatamente obbligatorio.

Dov’è l’errore, allora? Non nella tecnica in sé. La tecnica è una forma alta di intelligenza pratica, un repertorio di mezzi. L’errore sta nel concetto di destino applicato alla tecnica: nel trattare una possibilità storica come se fosse una necessità ontologica. È una scorciatoia mentale che trasforma il contingente in inevitabile. In termini logici, è una fallacia performativa: scambiare ciò che possiamo fare con ciò che dobbiamo fare, e ciò che accade spesso con ciò che non può essere altrimenti.

Ma anche il concetto di destino può trarci in inganno quando scivola nel fatalismo: “così va il mondo, non c’è alternativa”. In realtà, sul piano umano, il destino ha senso solo come destinazione: un orientamento di fini che possiamo discutere, correggere, ripensare. Parlare di destino senza questa apertura equivale a sottrarre le scelte al giudizio e alla responsabilità.

Se dunque l’uomo fa della tecnica il proprio destino, perde il diritto all’alternativa e si consegna a una necessità che non è tale. L’errore non è nella tecnica, ma nell’assolutizzarla; non è nel martello, ma nella mano che dimentica di poterlo posare. Qui torna l’avvertimento di Severino: scambiare la tecnica per destino significa continuare a credere che l’essere possa essere prodotto e annullato, come se davvero il nulla potesse vincere sull’essere. Il tribunale della ragione non condanna la tecnica: le chiede di tornare al suo posto, mezzo tra i mezzi, dentro un destino scelto, discutibile, condiviso.

Solo così l’IA smette di essere un oracolo e torna a essere uno specchio: ci rimanda l’immagine dei nostri fini. Se l’immagine non ci piace, non è lo specchio che va cambiato, ma il volto che vogliamo darle. E questo — ancora, e per fortuna — dipende da noi.

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