15. Laboratorio di lettura: Arendt e la banalità del male

Il passo

«Le azioni erano mostruose, ma l’uomo che le compì era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso.» (La banalità del male, Rapporto su Eichmann a Gerusalemme).

Lettura guidata

La frase colpisce perché rovescia l’immaginario collettivo. Ci aspetteremmo che dietro lo sterminio ci sia un genio del male, un demone affascinante o spaventoso, un essere diverso da noi. Arendt invece ci presenta un uomo ordinario: mediocre, grigio, incapace persino di formulare una frase non ripetuta a memoria. Eichmann non ha nulla del tiranno shakespeariano o del diavolo medievale. È piuttosto l’impiegato modello: preciso, efficiente, senza fantasia.

Arendt nota che parlava per formule già fatte, come un registratore. Non aveva la lingua per dire il male che compiva, e proprio per questo non lo vedeva. La sua lingua burocratica era il suo guscio: dentro non c’era riflessione, non c’era sguardo critico. Solo vuoto.

Ecco allora la rivelazione: il male non è necessariamente un abisso profondo, può essere una superficie piatta. La banalità è proprio questo: l’assenza di profondità. Non occorre un odio viscerale, basta non fermarsi mai a pensare.

Lezione

Da qui nasce la lezione filosofica: il pericolo non sono solo i grandi dittatori, ma la moltitudine di persone comuni che smettono di esercitare il pensiero. Eichmann non era un mostro solitario, era il prodotto di una macchina fatta di individui che hanno rinunciato a interrogarsi.

Arendt distingue il pensare come esercizio critico – dialogo silenzioso con se stessi, capacità di dire “no” quando tutto spinge al “sì” – dal semplice obbedire. Dove il pensiero si ritira, l’uomo diventa ingranaggio. E un ingranaggio non sceglie, esegue.

Il messaggio è scomodo: non possiamo illuderci che il male sia sempre altrove, incarnato da figure eccezionali. Il male abita nella normalità che smette di interrogarsi. Nella comodità di non assumersi la responsabilità. Nel lasciarsi trascinare.

Pensare diventa allora un atto politico, un gesto di resistenza quotidiana. Non un lusso per pochi, ma il fondamento stesso della dignità umana. Chi non pensa, consegna sé stesso e gli altri alla corrente.

Attualizzazione 

La banalità del male non è storia antica. La vediamo oggi, in diretta, nei plotoni di nani digitali che lapidano chiunque sui social. Non sono mostri, non hanno volto, non hanno coraggio. Sono piccoli Eichmann da tastiera. Non uccidono con gas o fucili, ma con frasi prefabbricate, con slogan lanciati come pietre, con la complicità codarda di un “mi piace”.

Sono uomini e donne “normali”: insegnanti, studenti, impiegati, pensionati. Di giorno fanno la spesa, la sera si siedono a massacrare chi ha sbagliato una parola, chi ha osato un’opinione diversa. Non pensano: reagiscono. Non giudicano: copiano. Non vedono persone: vedono bersagli.

Il loro crimine non è gridare: è spegnere il cervello. È l’eco infinita del cliché. La massa che si crede giusta perché non osa chiedersi se sta diventando carnefice.

E allora sì, la banalità del male oggi ha un nickname, un avatar, una connessione veloce. Non veste l’uniforme, ma il pigiama. Non alza la mano per giurare fedeltà, ma il dito per cliccare “invio”. Sempre uguale, sempre mediocre, sempre micidiale.


Ho chiesto all’IA di fare dei nomi, di indicare alcune punte d’iceberg del panorama contemporaneo che incarnano platealmente la “banalità del male”. Ecco la sua risposta (con le fonti):

  1. Benjamin Netanyahu

Il suo volto non incarna la malvagità spettrale, ma una normalità gelo-comoda: diplomatico, calcolatore, presentato come figura pragmatica. Tuttavia, la retorica della “necessità” e della “ragione di Stato” serve a giustificare escalation sistemiche, come l’occupazione e la sofferenza palestinese. In questi movimenti normali, la violenza quotidiana passa inosservata.
Riflessione illuminante: “If the banality of evil is the ordinary face of extraordinary cruelty, then its danger extends beyond borders… Netanyahu’s policies… escalate Palestinian suffering… each move is justified as rational, pragmatic and necessary.” arabamericannews.com

  1. Donald Trump (e i suoi burocrati leali)

Non è l’autocrate spettacolare: è quello che frammenta la democrazia con piccoli movimenti quotidiani — leggi interpretate a suo unico piacimento, fedeltà forzata, salariati disposti a tutto. Il potere che logora, giorno dopo giorno: non urla, ma impone.
Ecco il punto centrale:

“He has issued a decree … only he and the Attorney-General can interpret the law for government institutions… seizing control of crucial personal record systems.” News.com.au

  1. Viktor Orbán

Non è un militarista marziale — è l’uomo tranquillo che svuota la democrazia dall’interno: mette le mani sui media, controlla la magistratura, perseguita ONG, e impone lo spionaggio tecnologico sui critici. Non è un tiranno in uniforme: è una procedura che smette di essere giustizia.
“Chipping away at the country’s democratic framework”, consolidare potere attraverso partiti e media fedeli. Wikipedia

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