Albert Ellis (1913-2007)
Albert Ellis nacque a Pittsburgh e crebbe a New York in una famiglia difficile. Studiò economia prima di approdare alla psicologia clinica alla Columbia University, dove ottenne il dottorato nel 1947.In un primo momento si formò come psicoanalista, ma presto si distaccò dalla scuola freudiana, che giudicava troppo lenta e inefficace. Negli anni Cinquanta sviluppò il proprio approccio innovativo, divenendo nel 1959 direttore dell’Institute for Rational Living a New York. L’istituto divenne un centro di riferimento internazionale per la diffusione delle sue idee.
Autore prolifico, scrisse oltre 75 libri e più di 700 articoli, affrontando temi che andavano dalla psicoterapia alla sessualità, dalla religione alla filosofia pratica. Tra le sue opere più note: How to Live with a Neurotic (1957), Reason and Emotion in Psychotherapy (1962), Sex Without Guilt (1958), The Myth of Self-Esteem (2005).
Figura carismatica e spesso controversa, Ellis univa rigore intellettuale e stile provocatorio. Amava il confronto diretto, non temeva di attaccare dogmi accademici e culturali, e difendeva con forza la necessità di rendere la psicologia accessibile e utile alla vita quotidiana. Morì a New York nel 2007, lasciando un’eredità che continua a influenzare la psicoterapia contemporanea e a collegare il pensiero antico degli Stoici con le sfide moderne della salute mentale.
Epitteto
Dimmi, straniero: esiste ancora oggi qualcuno che si occupa dell’anima afflitta? Io vedo uomini agitarsi, correre dietro a ricchezze e applausi, ma nessuno che sappia sedare le passioni che divorano dall’interno. Nel mio tempo insegnavo che la libertà è dentro, non fuori. Che chi teme ciò che non dipende da lui sarà sempre schiavo. Oggi avete ancora maestri di libertà, o soltanto mercanti di rimedi?
Albert Ellis
Maestro, permettimi di essere brutale: la parola anima non mi convince. Suona nobile, ma è scivolosa. In psicologia non aiuta: sembra indicare una sostanza misteriosa, intoccabile, che sfugge a ogni responsabilità. Io preferisco parlare di pensieri, emozioni, comportamenti. Cose che possiamo osservare, discutere, cambiare.
Se dico “anima ferita”, la persona si sente condannata da un destino invisibile. Se dico “convinzione irrazionale”, capisce che può lavorarci sopra. Non sto negando la profondità dell’uomo, ma solo un termine che, oggi, rischia di oscurarla sotto veli mistici.
Epitteto
Tu parli di pensieri, emozioni, comportamenti. Io non nego che siano realtà tangibili, ma se riduci l’uomo a questi frammenti perdi il centro. Io chiamo anima ciò che tiene insieme i frammenti, ciò che decide se un pensiero è degno, se un’emozione deve essere seguita o lasciata cadere. Senza quest’unità interiore l’uomo è disperso come un viandante nella tempesta.
Non è il nome che conta, ma la facoltà di decidere. In ogni momento ci è dato un potere minimo ma inviolabile: dire sì o no, accogliere o respingere, piegarsi o resistere. Questa scelta è il cuore dell’uomo, la sua libertà. Chiamala come vuoi, io la chiamo anima.
Ellis
Va bene, maestro, chiamiamola pure anima. Ma allora spiegami: qual è la terapia che può curarla? Oggi siamo pieni di ciarlatani che vendono “parole di saggezza” come pillole miracolose: frasi motivazionali stampate sulle tazze, corsi di crescita personale a mille euro, santoni da talk show che promettono pace interiore in dieci lezioni. Se questa è la medicina dell’anima, non mi sorprende che la gente resti più malata di prima. Dimmi allora: qual è la vera cura, se ne esiste una?
Epitteto
La vera cura non è nelle frasi appese a un muro né nei proclami dei mercanti di consolazioni. Non servono slogan, ma esercizio quotidiano. L’anima si cura come il corpo: con disciplina, con prove ripetute, con la rinuncia all’eccesso. Io non vendo pace in dieci lezioni, insegno a distinguere ciò che dipende da te da ciò che non dipende da te. Ogni volta che accetti questa distinzione, guarisci un poco dalla follia del mondo.
E non parlo solo per il mio tempo. Qualcuno oggi insegna che la filosofia non è teoria da insegnare, ma terapia da praticare. Esercizi spirituali, li chiama: meditare la morte, abituarsi a vedere le cose dall’alto, sorvegliare i propri giudizi. Non diversamente da come ci si allena nel corpo, con il sudore e con la fatica. La filosofia è medicina dell’anima: non parole decorative, ma strumenti per cambiare vita. Chi le prende sul serio diventa libero. Chi le riduce a sentenze da calendario resta schiavo, anche se ne conosce a memoria mille.
Ellis
Sì, Hadot ha colto bene il punto: la filosofia come esercizio, non come teoria da biblioteca. Ma permettimi di fare un confronto, maestro. Tu parli di esercizi spirituali: meditare la morte, dominare i desideri, guardare dall’alto la scena del mondo. Io parlo di esercizio clinico: prendere una convinzione irrazionale, metterla sul tavolo, smontarla pezzo a pezzo e sostituirla con un pensiero più realistico. La differenza è nel metodo, non nel fine. Tu alleni l’anima con la contemplazione del cosmo e con la disciplina morale. Io alleno la mente con schede, dialoghi serrati, compiti a casa. Tu cerchi l’armonia con il Logos, io mi accontento che il paziente smetta di devastarsi da solo. Ma il principio è lo stesso: la filosofia non si insegna, si pratica. In questo, Hadot e io ci stringiamo la mano.
Epitteto
Tu parli di esercizio clinico, io di esercizio spirituale. Ma forse le nostre strade non sono così lontane. Ricorda che therapeía, nella mia lingua, significa anzitutto prendersi cura. Non solo guarire un male già presente, ma assistere, accompagnare, servire ciò che merita di essere custodito. La terapia dell’anima è custodia di se stessi, vigilanza costante, arte del vivere.
Dimmi allora, straniero: nella tua clinica la parola terapia conserva ancora questo senso? È davvero cura della persona intera, o soltanto riparazione di un ingranaggio che si è rotto?
Ellis
Hai ragione, maestro: terapia è prendersi cura. Ma nella clinica moderna spesso la riducono a officina di riparazioni: pillole per dormire, protocolli standardizzati, check-list da compilare. Io ho sempre rifiutato questa riduzione. La mia terapia è sì tecnica, ma non meccanica: non tratto ingranaggi, tratto esseri umani che si complicano la vita con i loro pensieri.
Quando parlo di razionalità non intendo freddo calcolo, ma il potere di scegliere convinzioni più sane, meno distruttive. È un allenamento: discutere con se stessi, ripetere, provare e riprovare. Non diversamente dai tuoi esercizi. Solo che io non invoco dèi né Logos: mi basta che la persona impari a vivere con meno auto-inganni. Se questo è prendersi cura, allora sì, la mia clinica è davvero terapia.
Lascia che ti mostri, maestro, come funziona nella mia pratica. Arriva un paziente e mi dice: “Mi ha lasciato, non posso più vivere, la mia anima è distrutta.” Ecco il punto di partenza, quello che tu chiameresti dolore dell’anima.
Io prendo la situazione e la metto nello schema ABC.
- A: il fatto — la persona amata se n’è andata.
- B: la credenza irrazionale — “Senza di lei non valgo nulla, sarò solo per sempre, la mia vita non ha più senso.”
- C: la conseguenza emotiva — disperazione, panico, isolamento, a volte persino il pensiero che la vita non meriti più di essere vissuta.
Il mio lavoro non è cambiare A: il fatto rimane. Nessuno può riportare indietro chi ci lascia. Ma posso cambiare B. È lì che si annida il veleno: la convinzione assoluta, il “sempre” e il “mai” che trasformano una perdita reale in una catastrofe irreparabile. Io sfido queste idee: davvero il tuo valore dipende interamente da un’altra persona? Davvero sei condannato a restare solo per sempre? O è solo un film che ti stai proiettando nella testa?
Non lo faccio con sermoni, ma con domande, dialoghi serrati, esercizi concreti: scrivere nero su bianco le frasi che ti ripeti, sostituirle con alternative più realistiche, metterle alla prova nella vita quotidiana. È un allenamento, come i tuoi esercizi spirituali: non basta ascoltare una massima, bisogna ripeterla, applicarla, farla diventare riflesso.
Quando la credenza si incrina, anche C cambia. Il dolore resta, ma non è più un abisso. Diventa ferita che può cicatrizzarsi. Il paziente scopre di poter ancora respirare, lavorare, amare. Non ha trovato la felicità eterna, ma ha smesso di torturarsi con il pensiero che la vita sia finita.
Questa, per me, è terapia: non eliminare la sofferenza, ma liberare dall’aggiunta inutile di dolore che la mente crea da sola. È un modo diverso di dire ciò che tu insegnavi: non sono le cose che ci turbano, ma i giudizi che ne diamo.
Epitteto
Vedo, straniero, che anche la vostra età ha le sue terapie. Non sono riti, non sono misteri, ma esercizi adatti al vostro tempo: domande serrate, schede, dialoghi con se stessi. Non importa se le chiamate clinica o psicologia: l’essenziale è che aiutino l’uomo a riconoscere i suoi giudizi e a liberarsene quando lo incatenano.
Molti pensano che la saggezza stia solo nel passato, come se i morti avessero detto tutto e i vivi dovessero soltanto ripetere. Io non lo credo. La cura dell’anima non appartiene a un secolo, ma all’uomo stesso. Ogni età trova le sue parole, i suoi metodi, le sue pratiche. La mia era filosofia, la tua è terapia cognitiva: due nomi diversi per lo stesso lavoro di vigilanza e di libertà.
È inutile andare a cercare nel passato rimedi già confezionati. Le massime degli antichi non sono amuleti: valgono solo se diventano carne e sangue nel presente. Tu mostri che si può tradurre la stessa esigenza in un linguaggio nuovo, comprensibile ai tuoi contemporanei. In questo c’è continuità, non ripetizione: la cura vive, non si conserva in un museo.
Se dunque oggi gli uomini trovano aiuto nei vostri esercizi clinici, non tradiscono la filosofia, ma la prolungano. Io la chiamavo therapeía tês psychês, voi la chiamate psicoterapia. È lo stesso gesto: rialzare l’uomo che soffre e insegnargli a non essere schiavo di se stesso.
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