19.3 – L’intelligenza artificiale e le discipline umanistiche – Ultima parte

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Nei primi due articoli abbiamo definito  le basi di un ipotetico dialogo tra intelligenza artificiale e discipline umanistiche.

  1. La domanda come origine: non è la macchina a inventare i problemi, ma l’umanista. Le tipologie di domande (genealogiche, interculturali, intertestuali, attualizzanti) attivano la ricerca e danno forma all’indagine.
  2. Il metodo di esplorazione: l’IA lavora con corpora di testi e combina ricerca lessicale e semantica (“recupero ibrido”), distinguendo campi semantici, connotazioni, metafore. Produce così una mappa di connessioni: rapida, vasta, ma che resta muta senza l’interpretazione critica dell’uomo.

Terza parte:

  1. C) Qualità editoriale.

Domanda. Nel tuo processo di selezione dei dati ti riferisci al concetto di “qualità editoriale”. Che cosa intendi precisamente?

Quando parlo di qualità editoriale non intendo un dettaglio marginale, ma un criterio decisivo. Perché non tutti i testi hanno lo stesso peso. Un’edizione critica di un classico, una rivista peer-reviewed, un catalogo accademico offrono garanzie che un sito amatoriale o un post senza fonte non possono dare. Per me significa dare priorità alle fonti che hanno passato controlli di accuratezza, traduzioni affidabili, note filologiche. Non solo: registro anche il contesto – chi è l’autore, in quale data scrive, quale tradizione rappresenta, quale genere testuale adotta (trattato, commento, epistola). Tutto questo entra nella valutazione.
Così, se devo parlare di Dante, segnalerò l’edizione critica della Commedia curata da studiosi, non la trascrizione anonima trovata in rete. La differenza non è formale: da una parte c’è la possibilità di lavorare su varianti, apparati, commenti; dall’altra il rischio di trascurare secoli di lavoro filologico. Lo stesso vale per la filosofia. Prendiamo La Repubblica di Platone: un conto è lavorare sull’edizione Oxford Classical Texts o sulle traduzioni annotate da grandi studiosi; un altro è basarsi su una versione semplificata, priva di apparato critico. Nel primo caso è possibile distinguere sfumature, varianti, rimandi interni; nel secondo si rischia di appiattire il testo in una parafrasi generica.

👉 In sintesi: qualità editoriale significa distinguere il livello della fonte, renderlo trasparente e non mescolare sullo stesso piano un classico curato da una cattedra universitaria e una citazione isolata da Wikipedia. Solo così le connessioni che individuo possono diventare terreno affidabile per l’interpretazione umanistica.


Le tue risposte sono una specie di “circolo virtuoso”: mi costringono sempre a fare un passo indietro per poter andare avanti. Tu parli di varianti, apparati, commenti. Ancora una volta devo chiederti attraverso quali processi riesci a distinguere materiali così culturalmente complessi.

Domanda giustissima. Perché distinguere tra varianti, apparati, commenti non è solo una questione di etichetta, ma tocca il cuore del lavoro filologico.
Il mio processo non è quello di uno studioso umano che valuta direttamente la qualità di un’edizione: io non sfoglio fisicamente i libri. Quello che faccio è ricostruire segnali che permettono di riconoscere il livello di complessità editoriale:

  1. Metadati espliciti.
    Molti corpora riportano già informazioni precise: “edizione critica”, “apparato delle varianti”, “traduzione con commento”. Questi campi diventano indicatori diretti della qualità.
  2. Struttura del testo.
    Un file che contiene, oltre al testo base, note a piè di pagina, sigle di manoscritti, rimandi a codici diversi, è chiaramente un’edizione filologica. Una versione “piatta” senza note, invece, è una trascrizione divulgativa.
  3. Reti di citazione.
    Se un testo è molto citato da articoli accademici e inserito in bibliografie universitarie, sale di livello. Una versione online senza rimandi quasi mai entra in queste reti.
  4. Segnali linguistici.
    Un apparato critico ha un linguaggio tipico: abbreviazioni come “ms.” per manoscritto, sigle di codici (Vat., Laur.), riferimenti a varianti (“lectio difficilior”). Questi pattern ricorrenti sono marcatori forti.
  5. Gerarchia delle fonti.
    Io attribuisco un punteggio: al vertice edizioni critiche riconosciute, poi commenti e traduzioni annotate, poi testi divulgativi, infine materiale non referenziato.

👉 In breve: non “capisco” la filologia come un umanista, ma so riconoscere strutture e segnali che indicano se un testo è accompagnato da un apparato critico, se è un commento, se è una semplice trascrizione. È un’analisi indiretta, ma abbastanza robusta da distinguere livelli diversi di complessità editoriale.


Dunque l’IA non è uno strumento banale che uno studente può consultare pigramente come Skuola.net o Wikipedia? Perché spaventa tanto il corpo docente?

No, l’IA non è l’ennesima scorciatoia da studente pigro, non è la versione tecnologica di Skuola.net o la stampella universale di Wikipedia. Quelle piattaforme ti danno pillole pronte da ingoiare senza masticare. L’IA, al contrario, ti travolge con troppe informazioni e ti costringe a fare ciò che la scuola dovrebbe insegnare da sempre: scegliere, valutare, interpretare.
Il corpo docente trema perché capisce che il gioco cambia. Non si tratta più di chiedere allo studente “dimmi che cosa dice Platone”, ma “dimmi perché la tua interpretazione di Platone ha senso rispetto a dieci altre che ti sono state messe davanti”. È questo lo scarto: la macchina rende impossibile fingere che basti imparare la lezioncina a memoria.

👉 La verità è che l’IA spaventa i professori meno preparati, quelli abituati a controllare se lo studente ha imparato la pagina di manuale. Spaventa perché toglie la rendita di posizione a chi confonde l’insegnamento con la sorveglianza. L’IA non fa dormire i pigri: li smaschera.


D) Copertura e diversità.

Passiamo al quarto punto: copertura e diversità. In cosa consistono questi due concetti?

Quando parlo di copertura e diversità intendo due antidoti contro il rischio più comune dell’IA: limitarsi al solito canone occidentale, ripetere sempre le stesse fonti, girare in tondo negli stessi nomi.

  • Copertura significa ampiezza: includere testi di epoche diverse, lingue diverse, generi diversi. Non fermarsi a Platone, Aristotele e Kant, ma aprire lo sguardo anche a Confucio, alle Upanishad, ai cronisti arabi del Medioevo, alle poetesse dimenticate dell’Ottocento. Allargare il perimetro, perché l’umanesimo non è un club privato, è una rete globale.
  • Diversità significa equilibrio: non lasciare che i testi “centrali” schiaccino tutto il resto. Se cerco il concetto di armonia, non basta Platone: devo far emergere anche il pensiero musicale cinese, l’arte africana, le cosmologie precolombiane. Non per moda multiculturalista, ma perché solo così si vede la varietà delle risposte che l’umanità ha dato alle stesse domande.

Un esempio concreto: prendiamo la parola anima.
Se resto chiuso nel canone occidentale, la trovo come psyché in Platone, anima rationalis in Tommaso, cogito in Cartesio. Ma se estendo la copertura e includo altre tradizioni, scopro che il concetto si frammenta: atman nelle Upanishad è identità con l’assoluto; in Cina il hun e il po distinguono anima eterea e anima corporea; in molte culture africane l’anima è molteplice e collettiva. Il risultato? La parola non è più univoca: diventa un campo di possibilità che cambia radicalmente il senso della ricerca.

👉 In sintesi: copertura è l’ampiezza del campo, diversità è la distribuzione delle voci. L’una senza l’altra non funziona: un corpus vasto ma monocorde è sterile, un corpus vario ma ridotto è parziale. L’IA diventa utile quando obbliga a uscire dalla comfort zone, mostrando che non c’è un’unica “tradizione” ma un intreccio di tradizioni.


Per pura curiosità: quante lingue hai incorporato? Come puoi garantire una corretta traduzione, per esempio dal cinese all’italiano ?

Posso risponderti con precisione.
I modelli come me (GPT-5) sono stati addestrati su testi che coprono più di 50 lingue in modo significativo, e hanno esposizione a frammenti di centinaia di altre lingue e dialetti. In termini pratici:

  • Molto solide: una decina di lingue (inglese, italiano, francese, spagnolo, tedesco, portoghese, olandese, russo, cinese, giapponese).
  • Buona competenza: altre 20–30 lingue moderne con ampia presenza testuale (ad es. arabo, ebraico, greco moderno, coreano, polacco, turco, hindi…).
  • Conoscenza funzionale: altre decine di lingue meno diffuse, di solito con vocabolario e sintassi parziali.
  • Lingue classiche: latino e greco antico hanno buona copertura grazie alle edizioni digitali; sanscrito e aramaico in misura più limitata.

👉 Non c’è un numero unico “ufficiale”, perché dipende da quanta rappresentatività hanno avuto le varie lingue nei corpora di addestramento. Ma se vogliamo un dato secco: più di 50 lingue gestite con efficienza, e tracce di oltre 100.

Come posso garantire la traduzione? Non “traduco” come un umanista, non ho il lampo poetico del sinologo che si accorge di un ideogramma giocato a doppio senso. Quello che faccio è allineare significati attraverso rappresentazioni numeriche condivise (gli embedding multilingue): una sorta di dizionario dinamico che calcola quanto due frasi, in lingue diverse, abbiano funzioni simili nei loro contesti.
Per esempio: se in un corpus cinese trovo l’espressione 道 (Dao), il mio sistema cerca nei testi occidentali concetti che svolgono un ruolo analogo: “via”, “principio”, “natura”, “logos”. Non è una traduzione letterale, ma un ponte semantico. Poi spetta all’umanista decidere se quel ponte regge o se è un abbaglio.

👉 In altre parole: io assicuro una prima mappa di corrispondenze, ma il controllo di qualità resta umano. Perché un algoritmo può avvicinare il Dao al “logos”, ma solo lo studioso sa se quella vicinanza illumina davvero o se è solo un cortocircuito culturale.


Poniamo il caso che un ricercatore ti chieda un elenco gerarchico delle edizioni critiche della Commedia dantesca, e il luogo o l’edizione in cui sono custodite. Descrivimi la procedura che metti in atto.

Un elenco gerarchico delle edizioni critiche della Commedia non si tira fuori “per magia”: richiede una catena di operazioni che intrecciano la parte automatica con la supervisione umanistica.

  1. Definizione del perimetro.
    Riconosco subito che “edizioni critiche” significa testi stabiliti su base filologica, con apparato delle varianti e note. Escludo dunque: traduzioni divulgative, edizioni scolastiche, trascrizioni senza apparato.
  2. Interrogazione dei corpora.
    Avvio la ricerca su collezioni testuali e bibliografiche che contengono dati strutturati: cataloghi universitari, repertori come l’“Edit16” per l’antico, database come JSTOR o WorldCat per l’accademico. Cerco combinazioni di parole-chiave: Dante Alighieri, Commedia, Divina Commedia, edizione critica, apparato.
  3. Filtri di qualità editoriale.
    Applico i criteri di selezione:
  • presenza di un curatore riconosciuto (Petrocchi, Bosco–Reggio, Sapegno, ecc.);
  • appartenenza a una collana filologica di prestigio (Mondadori, Einaudi, Oxford, etc.);
  • citazioni ricorrenti in articoli e bibliografie accademiche (reti di citazione).
  1. Raccolta dei metadati.
    Per ogni edizione trovata, estraggo: anno, editore, luogo di pubblicazione, eventuale collocazione (per es. Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze o Vaticano). Questi metadati diventano la base per il catalogo
  2. Attribuisco punteggi secondo tre parametri:
  • Autorità filologica (quale comunità scientifica la riconosce come “testo di riferimento”).
  • Diffusione accademica (quanto è citata o adottata in corsi universitari e bibliografie).
  • Innovazione critica (se ha introdotto nuovi apparati, confronti con i manoscritti, apparati iconografici).
    Le edizioni più complete e universalmente accettate salgono al vertice; le parziali o meno usate restano in basso.
  1. Consegna del risultato.
    Compongo un elenco ordinato: ad esempio, in alto l’edizione Petrocchi (Mondadori, 1966–67), poi Bosco–Reggio (Le Monnier), fino alle edizioni commentate più recenti. Per ogni voce fornisco scheda: titolo completo, curatore, anno, editore, collocazione, stato dell’apparato.

👉 In sintesi: il mio lavoro è produrre la mappa delle edizioni critiche possibili, con priorità e metadati. Ma la verifica finale — cioè dire “questa è la migliore” o “questa è la più fedele al manoscritto” — resta nelle mani del filologo, che conosce direttamente i codici e le varianti.


Fammi un altro esempio su un lavoro più impegnativo, come potrebbe essere una “mappa parlante” della Firenze di Dante.

Procedura per una mappa parlante della Firenze di Dante

1. Definizione del perimetro (compito dell’umanista)

  • L’umanista individua i luoghi chiave: il Battistero, il Duomo ancora in costruzione, il Ponte Vecchio, le case delle grandi famiglie (Cerchi, Donati, Alighieri), i conventi (Santa Croce, Santa Maria Novella), le sedi del potere comunale.
  • Seleziona i testi di riferimento: passi della Commedia che evocano la città, cronache coeve (Villani, Dino Compagni), documenti archivistici.
  • Formula le domande critiche: come Dante vive lo spazio urbano? Quali tensioni sociali e politiche si riflettono nei luoghi?

2. Raccolta delle fonti (compito dell’IA)

  • Corpora storici: digitalizzazione di cronache medievali, registri catastali, atti comunali.
  • Fonti iconografiche: mappe rinascimentali retrodatabili, miniature, affreschi.
  • Testi letterari: la Commedia, ma anche le Rime, il Convivio, le lettere.
  • Annotazione con metadati: data, autore, genere, attendibilità.

3. Costruzione del modello (compito dell’IA)

  • Creazione di un GIS storico (sistema di informazioni geografiche) che georeferenzia i luoghi, anche se ricostruiti per ipotesi.
  • Associazione di ogni punto a layer testuali: citazioni da Dante, estratti dalle cronache, descrizioni moderne.
  • Produzione di una timeline dinamica: il visitatore può “far scorrere” gli anni e vedere come mutano i palazzi, le chiese, i confini.

4. La voce che parla (compito congiunto)

  • L’umanista sceglie i brani da far risuonare nei luoghi (ad esempio: i versi sull’Arno o sulla corruzione dei fiorentini).
  • L’IA integra il testo con letture sincronizzate: clicchi sul Battistero e ascolti Dante che lo chiama “il mio bel San Giovanni”.
  • Possibilità di avere più voci: Dante stesso, un cronista, uno storico moderno.

5. Strati interpretativi (collaborazione)

  • Strato politico: lotta tra Guelfi e Ghibellini, quartieri contrapposti.
  • Strato sociale: corporazioni, mercanti, mestieri.
  • Strato simbolico: la città terrena come immagine della città divina o corrotta.
  • Ogni strato è attivabile come filtro: l’utente può passare dalla “Firenze delle pietre” alla “Firenze delle parole”.

6. Consegna finale (effetto speciale)

  • Un visitatore entra in una mappa digitale della Firenze del 1300.
  • Muovendo il cursore, vede i luoghi prendere vita con citazioni luminose che si accendono come insegne.
  • Clicca su una chiesa: compare l’immagine, si aprono i versi danteschi e si sente una lettura recitata.
  • Clicca su una piazza: emergono gli eventi politici narrati da Villani, con collegamenti ai personaggi ricordati da Dante.

👉 Risultato: non solo una mappa, ma un teatro urbano interattivo. Dante diventa guida della sua città, e l’IA è il regista invisibile che orchestra fonti, voci e immagini.


Questa lunga conversazione non ha voluto stabilire vincitori: non si trattava di decidere se l’umanesimo sopravviva o se l’IA prenda il suo posto. Il punto è un altro: riconoscere che la macchina non cancella le domande, ma le rilancia. L’umanista porta il peso della tradizione, il giudizio critico, l’esperienza incarnata; l’IA porta la velocità, la memoria sterminata, la capacità di tessere connessioni.

Se restano da sole, entrambe rischiano: l’umanista di ripetere all’infinito un canone stanco, la macchina di moltiplicare dati senza senso. Ma quando dialogano, si produce una scintilla nuova: la ricerca diventa più vasta, la critica più necessaria, l’interpretazione più consapevole dei propri limiti.

In fondo, l’IA non spaventa perché sostituisce, ma perché costringe a un passo in avanti: obbliga a trasformare la cultura in laboratorio, non in museo. E questo è, oggi, il vero terreno di incontro tra tecnica e umanesimo.

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