Ilan Pappé, La pulizia etnica della Palestina, Roma, Fazi Editore, 2008 (ed. orig. The Ethnic Cleansing of Palestine, London, Oneworld, 2006).
Perché questo libro oggi
La pulizia etnica della Palestina (2006) non è “un altro libro sul 1948”: è un cambio di fuoco. Pappé non guarda al solo andamento militare della guerra del ’48–’49, ma alla logica politico-amministrativa che la precede e la accompagna: chi decide che cosa, quando, con quali parole, quali mappe, quali liste di villaggi, quali ordini agli ufficiali locali. È qui che la sua tesi diventa dirompente: l’espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi non come effetto collaterale di scontri caotici, ma come obiettivo perseguito tramite una combinazione di pianificazione centrale, direttive operative e iniziative sul terreno.
Perché oggi? Per tre ragioni.
(a) Storiografica. Pappé porta il lettore dentro la “sala macchine” dello Stato nascente, mostrando la trama fra linguaggio pubblico (“trasferimento”, “sicurezza”, “riassetto demografico”) e atti concreti (operazioni militari, distruzione o riuso dei villaggi, blocco dei ritorni). In questo senso, il libro è anche una lezione di metodo: fa vedere come si incrociano protocolli politici, ordini di battaglia, diari, rapporti locali e testimonianze degli sfollati, per costruire una catena di responsabilità verificabile.
(b) Civile. L’uso del termine “pulizia etnica” (concetto giuridico-politico discusso ma non vago) obbliga a misurare la storia con categorie di responsabilità e diritti: chi decide chi resta e chi parte? che cosa diventa “proprietà abbandonata”? quale destino hanno i luoghi cancellati dalle carte? Il libro non cede al manicheismo, ma rifiuta l’edulcorazione lessicale che disinnesca la realtà degli atti.
(c) Attuale. Senza rincorrere la cronaca, il volume offre una grammatica di lungo periodo: spiega come certe pratiche (sgomberi, ridisegni toponomastici, regimi di permesso, controllo delle frontiere) nascano in quel frangente e sopravvivano in forme mutate. Capire il 1948 significa capire il presente: il lessico con cui nominiamo gli eventi non è neutro, e la memoria pubblica del conflitto si costruisce anche sull’accettazione o sul rifiuto di quella genealogia.
Per chi insegna o fa divulgazione, il valore aggiunto è duplice: Pappé mostra le carte e, insieme, mostra come si leggono—come si passa dal documento all’interpretazione senza confondere prova e opinione, evento e giustificazione.
Fonti utilizzate da Pappé
La ricostruzione si fonda su fondi archivistici israeliani declassificati negli anni ’80–’90 e su un ampio corpus di testimonianze:
- Israel State Archives (ISA): verbali di comitati governativi, corrispondenza dei ministeri e del Consiglio provvisorio.
- Israel Defense Forces and Defense Establishment Archives (IDFA) e Haganah Archive: piani operativi (fra cui il Piano Dalet), ordini, rapporti di situazione, sintesi d’intelligence.
- Central Zionist Archives (CZA) e Ben-Gurion Archives (BGA): diari di David Ben Gurion, carte dei dirigenti dell’Yishuv, scambi interni sul “trasferimento”.
- Fonti non statali: registri catastali e comunali, stampa dell’epoca, testimonianze orali palestinesi e israeliane raccolte sul campo, fotografie e mappe dei villaggi (prima e dopo le operazioni).
L’argomentazione nasce dall’incrocio di questi dossier: la sequenza fra decisioni politiche centrali, direttive militari, esecuzione locale e successivi impedimenti al rientro è ciò che consente a Pappé di parlare di “pulizia etnica” come progetto deliberato e non come mero esito di guerra.
Il contesto dei “Nuovi Storici”
Per orientare il lettore nel dibattito, ecco alcune opere chiave del filone critico israeliano cui Pappé appartiene:
- Benny Morris, The Birth of the Palestinian Refugee Problem, 1947–1949 (1988; rev. ed. 2004) – Primo studio sistematico sui rifugiati basato su archivi israeliani.
- Avi Shlaim, Collusion Across the Jordan: King Abdullah, the Zionist Movement, and the Partition of Palestine (1988) – Rilegge i rapporti Israele–Transgiordania, sfatando il mito dell’isolamento totale.
- Tom Segev, 1949: The First Israelis (1986) – Anatomia della società israeliana alla nascita dello Stato; si veda anche Segev, One Palestine, Complete (2000) per il periodo mandatale.
Queste ricerche hanno aperto l’archivio della memoria pubblica israeliana; Pappé spinge oltre, adottando esplicitamente la categoria di “pulizia etnica”. Il dissenso fra gli stessi Nuovi Storici sull’uso di quel termine è parte del dibattito e, per chi legge, un invito a misurare tesi, prove e lessico con attenzione critica.
Una chiave di lettura filosofica
Il merito (e il rischio) del libro di Pappé sta nell’uso di una categoria che non appartiene solo alla storiografia, ma al lessico morale e giuridico: “pulizia etnica”. Dire che nel 1948 non ci fu solo guerra, ma un piano deliberato di espulsione, significa varcare il confine fra descrizione e giudizio. È qui che il testo si apre a una riflessione filosofica:
- Arendt ci ha insegnato che la politica degenera quando diventa amministrazione della violenza. I verbali e le direttive che Pappé cita non sono solo “carte militari”, ma esempi di quella burocratizzazione del male che Arendt aveva visto nei processi di Norimberga e nel caso Eichmann.
- Foucault parlerebbe di dispositivi di potere: archivi, mappe, registri catastali trasformano la violenza in una procedura di governo, e la rendono invisibile sotto il velo della normalità amministrativa.
- Levinas ci obbligherebbe a non dimenticare che dietro le statistiche ci sono volti, e che ogni “villaggio evacuato” significa migliaia di volti cancellati.
La domanda che il libro solleva, oltre la storia, è: la filosofia della storia deve limitarsi a registrare gli eventi, o deve anche giudicarli? E quale linguaggio è lecito usare quando si parla di eventi fondativi? Il coraggio di Pappé è di non rifugiarsi nell’eufemismo (“trasferimento”, “esodo”), ma di chiamare la realtà col suo nome. È un gesto che ci ricorda che la verità storica non è mai solo questione di fatti, ma anche di parole.
Una frase scelta
«Quello che avvenne nel 1948 non fu né una guerra accidentale né un esodo spontaneo: fu la realizzazione di un piano concepito con lucidità e determinazione per creare uno Stato ebraico senza arabi.»
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