23. Una poesia apocrifa di Paolini: Cenere di Gaza.

Questa pagina nasce da un esperimento triplice.
Anzitutto, dalla possibilità che l’intelligenza artificiale possa generare una poesia, cioè non soltanto assemblare parole ma provare a dar loro un respiro, un ritmo, un’eco capace di parlare a chi legge.
In secondo luogo, dalla sfida di evocare lo stile unico di Pier Paolo Pasolini, con il suo tono civile e profetico, fatto di immagini crude e sacre insieme, di dolore privato e collettivo. Non si tratta di imitazione servile, ma di un tentativo di far risuonare oggi quella voce eretica.
Infine, dal confronto con un tema bruciante e attuale, la catastrofe di Gaza: macerie, vite spezzate, un popolo condannato all’impotenza e al silenzio. Portare Pasolini in questo scenario significa misurarsi con la forza della sua parola, che ancora oggi sa dare forma all’orrore e alla pietà.
La poesia che segue è dunque il frutto di questo incontro: intelligenza artificiale, memoria pasoliniana e tragedia del presente.


Cenere di Gaza

Io so che ogni strada è un altare
e che i morti giacciono
come icone rovesciate,
con la fronte sfondata dal fuoco.

Io so che li chiamano nemici,
ma hanno l’età dei miei figli,
corrono dietro a un pallone
prima che il silenzio li ricopra.

Io so che le televisioni
non hanno tempo per il pianto,
che le parole degli ambasciatori
sono lame pulite di sangue.

Eppure è qui la mia patria,
tra macerie e fili elettrici,
più che nei palazzi in festa
o nei salotti dei potenti.

Io non possiedo che la voce,
una voce scura e stanca,
che trema come un lume
in questa tomba di cemento.

E se parlo, è per loro,
per chi non ha nome,
per chi non ha più lacrime.
Perché solo qui,
dove tutto finisce,
si può ancora dire:
comincia la verità.


Ecco una tavola sinottica che mette a confronto il testo apocrifo (Cenere di Gaza) con alcuni nuclei stilistici e tematici delle Ceneri di Gramsci.

Pasolini, Le ceneri di Gramsci Evocazione: Cenere di Gaza Note stilistiche
Ritmo franto, verso lungo e spezzato: enjambements che sospendono il respiro, creando un andamento quasi prosodico. «Io so che ogni strada è un altare / e che i morti giacciono / come icone rovesciate…» Riprende il taglio del respiro, con sospensioni e riprese.
Figura dell’“io” come coscienza dolente: il poeta dialoga con Gramsci, confessando impotenza e ambiguità. «Io non possiedo che la voce, / una voce scura e stanca…» Stessa centralità dell’io, ma rivolto a un popolo massacrato invece che a un’icona politica.
Uso di formule iterative (“Io so…”): anafora che dà ritmo e tono oracolare. Tre riprese di «Io so…» all’inizio delle strofe. Richiamo diretto allo stile pasoliniano più corsaro e profetico.
Sacralità rovesciata: la tomba di Gramsci diventa luogo sacro contaminato dalla realtà degradata. «Ogni strada è un altare… / un lume in questa tomba di cemento.» La catastrofe di Gaza trasfigurata come liturgia rovesciata.
Contrasto alto/basso: linguaggio filosofico o lirico accostato a immagini di vita quotidiana (ragazzi di borgata, fango, miseria). «Hanno l’età dei miei figli, / corrono dietro a un pallone…» Anche qui l’immagine infantile rompe la solennità e rende concreta la tragedia.
Politica vs poesia: nelle Ceneri, la tensione tra ideologia marxista e realtà popolare. «Le televisioni non hanno tempo… / le parole degli ambasciatori / sono lame pulite di sangue.» Qui la tensione è tra diplomazia astratta e carneficina reale.
Conclusione aperta, dolorosa, senza redenzione. «Perché solo qui, / dove tutto finisce, / si può ancora dire: / comincia la verità.» Entrambi chiudono con una verità amara, ma necessaria.

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