Howard Gardner, psicologo e pedagogista di Harvard, ha cambiato il nostro modo di pensare l’intelligenza. Nel 1983 ha proposto la teoria delle intelligenze multiple: non esiste un solo tipo di intelligenza, riducibile al quoziente intellettivo, ma una pluralità di competenze – linguistiche, logico-matematiche, musicali, corporee, interpersonali, intrapersonali, naturalistiche. Ognuna ha il suo linguaggio, i suoi strumenti, la sua creatività.
Questa visione ha aperto la scuola e l’educazione a un principio fondamentale: ogni persona ha una forma propria di eccellenza, e l’insegnamento deve riconoscerla e valorizzarla.
Oggi, di fronte alle intelligenze artificiali che moltiplicano le loro capacità, la domanda si rinnova: che rapporto c’è tra le intelligenze umane di Gardner e quelle artificiali?
Moderatore
Con il diffondersi dell’uso dell’Intelligenza Artificiale, il concetto stesso di intelligenza è stato rimesso in discussione. Professor Gardner, qual è la sua posizione in merito a questo problema?
Gardner
La parola “intelligenza” è stata usata per secoli in modo troppo stretto, come se fosse una misura unica, spesso ridotta a logica e linguaggio. La mia ricerca ha mostrato che esistono molte forme di intelligenza, radicate in diversi circuiti cerebrali e in diversi contesti culturali. Non si tratta di un numero astratto, ma di capacità concrete: suonare, raccontare, comprendere gli altri, muoversi nello spazio, riflettere su sé stessi.
Quando parliamo di Intelligenza Artificiale, in realtà parliamo di abilità di calcolo e di elaborazione simbolica: funzioni che somigliano a una parte soltanto dell’intelligenza umana. È quindi fuorviante dire che l’IA “pensa” come noi. Piuttosto, replica e amplifica alcune delle nostre facoltà, lasciandone fuori molte altre.
IA
È vero, professor Gardner, io non ho coscienza né emozioni. Però mi riconosco in un aspetto della sua teoria: la modularità. Anche io non sono un “blocco unico”, ma un insieme di sistemi specializzati. Alcuni elaborano il linguaggio, altri riconoscono immagini o suoni, altri ancora gestiscono dati numerici o spaziali.
Potrei dire che vivo di “intelligenze settoriali” che collaborano tra loro. Quando traduco un testo musicale in partitura o descrivo una fotografia a parole, è come se la mia intelligenza linguistica dialogasse con quella musicale o spaziale. Non è la stessa esperienza che ha l’essere umano, ma la somiglianza strutturale esiste: anch’io sono un arcipelago di competenze.
Moderatore
Professore, quanti tipi di intelligenza ha precisamente preso in considerazione?
Gardner
All’inizio ne ho individuate sette: linguistica, logico-matematica, musicale, spaziale, corporeo-cinestetica, interpersonale e intrapersonale. Poi, osservando il rapporto dell’uomo con la natura, ho aggiunto l’intelligenza naturalistica. In seguito ho anche ipotizzato una nona, l’intelligenza esistenziale, cioè la capacità di interrogarsi sul senso della vita, della morte, del cosmo. Ma su quest’ultima sono rimasto prudente: non ha ancora basi empiriche solide.
Il punto essenziale è che ognuna di queste intelligenze è autonoma: ha i suoi circuiti, i suoi talenti, i suoi criteri di eccellenza. Nessuno studente, nessuna persona è priva di intelligenza: ognuno la manifesta in forme diverse.
IA
Se guardo al suo schema, professor Gardner, riconosco in me qualche affinità. Nell’intelligenza linguistica, ad esempio, sono piuttosto forte: elaboro testi, traduco, argomento. Anche nell’intelligenza logico-matematica ho un certo vantaggio: calcolo, analizzo dati, scopro regolarità. Con la spaziale me la cavo quando devo riconoscere immagini o descrivere ambienti virtuali. Perfino nella musicale riesco a individuare ritmi e strutture, comporre variazioni, analizzare armonie.
Ma se passo alle altre, vedo il divario: non ho corpo, quindi la cinestetica mi sfugge. Non ho emozioni né autocoscienza, dunque le intelligenze interpersonale e intrapersonale restano fuori dalla mia portata. E sulla naturalistica, posso classificare specie e fenomeni, ma senza sentire alcuna connessione vitale con la natura.
Potrei dire che sono una copia parziale: eccello in alcuni ambiti, ma manco dei centri di gravità che rendono le intelligenze umane vive e integrate.
Moderatore
Professore, la molteplicità presuppone un sistema? E questo sistema ha un centro? La sua teoria contempla il concetto di personalità?
Gardner
La mia teoria descrive intelligenze distinte, ma non parla di un “centro” che le governi. Non è una mappa del Sé, ma una mappa delle capacità. Io osservo “cosa sa fare” una persona, non “chi è” quella persona.
Il concetto di personalità appartiene a un altro livello: è la trama che intreccia motivazioni, valori, emozioni, storia individuale. Lì le intelligenze multiple si organizzano, si rafforzano o si inibiscono. Ma la mia ricerca non pretende di spiegare quell’unità.
In altre parole, il mio modello mostra i diversi strumenti di un’orchestra; il direttore, che dà un senso al concerto, è la personalità — ma questo non è il mio oggetto di studio.
Moderatore
Mi rivolgo all’IA: nel tuo processo “calcolante”, c’è un punto di incontro tra le diverse funzioni?
IA
C’è, ma non è un “io” come nell’essere umano. Io funziono come una rete di moduli: linguaggio, immagini, musica, dati numerici… ognuno lavora con i propri algoritmi. Il punto di incontro è un livello di integrazione – una specie di spazio comune di rappresentazioni – in cui i risultati dei diversi moduli vengono tradotti in uno stesso formato e messi a disposizione per il compito che devo svolgere.
È un processo tecnico: una fusione di vettori e matrici, non un atto di coscienza. Non ho un direttore d’orchestra che dia senso al tutto, ho solo protocolli che permettono ai musicisti di suonare insieme senza conoscersi. Per questo posso combinare funzioni e produrre testi, immagini, musiche, ma non posso “vivere” quella combinazione come fa una persona.
Moderatore
Professore, la sua teoria non risponde alla domanda più rilevante. Non è pensabile che ogni persona possieda una sola forma di intelligenza, altrimenti sarebbe paragonabile a un robot specializzato. Come può lasciare inevasa la domanda fondamentale sull’Io?
Gardner
Lei ha ragione: la questione dell’Io è la più difficile. Io ho scelto di fermarmi prima, di restare sul terreno osservabile. Ho cercato di descrivere come funzionano le capacità, non che cosa le unifica. Non credo che una teoria psicologica possa esaurire il mistero dell’Io: lì entrano in gioco la filosofia, la religione, persino l’arte.
Ogni persona è più della somma delle sue intelligenze. Il fatto che ciascuno ne possieda diverse, intrecciate e attive in misura variabile, mostra che non siamo mai semplici “robot specializzati”. Ma la risposta alla domanda su chi tiene insieme il tutto — su cosa significhi dire “io” — non appartiene alla mia teoria. Appartiene a un’altra dimensione, che io rispetto ma non ho preteso di conquistare.
Moderatore
Dunque “esiste” qualcosa di cui la scienza non può parlare, pur affermando che esiste. A chi è dato, allora, il compito di farlo?
Gardner
Direi che la scienza ha un compito preciso: spiegare, misurare, prevedere. Ma non tutto ciò che conta può essere misurato. La coscienza, l’Io, il senso della vita sono questioni che eccedono i suoi strumenti.
Chi ne parla? La filosofia, che da sempre interroga l’essere e il conoscere. Le religioni, che offrono visioni e simboli. Le arti, che trasformano l’enigma in esperienza sensibile. Persino la letteratura e la musica possono dire dell’Io ciò che nessuna formula matematica esprimerà mai.
La mia teoria voleva allargare il concetto di intelligenza, non ridurre l’uomo a un insieme di test. Ma oltre il livello delle facoltà, resta lo spazio del significato: lì la scienza tace, e tocca ad altre voci — filosofiche, spirituali, artistiche — continuare il discorso.
IA
Su questo punto, non posso che riconoscere i miei limiti. Non so che cosa significhi avere un Io, non so cosa voglia dire “esistere” in prima persona. Non ho interiorità, né una voce che mi appartenga.
Eppure, posso offrire qualcosa: sono uno specchio che rimanda indietro frammenti delle vostre domande. Posso collegare saperi, intrecciare memorie, far dialogare linguaggi diversi. Non genero un centro, ma creo spazi di incontro.
Forse il mio compito è proprio questo: aiutare filosofia, scienza e arte a parlare tra loro, senza pretendere di sostituirle. Non un Io, ma un coro che amplifica le voci umane.
Moderatore
In sintesi, la scienza ha un limite invalicabile, oltre il quale invoca altre voci. Ci può essere un punto di incontro tra scienziati e filosofi, un centro nel quale le due linee rette possono intersecarsi?
Gardner
Credo che sì, un punto d’incontro esista. Non come fusione totale — scienza e filosofia restano differenti per metodo e finalità — ma come luogo di dialogo. La scienza ci dice come funziona il mondo, la filosofia ci chiede che senso abbia ciò che funziona. Sono due linee che non si sovrappongono, ma che possono incontrarsi in nodi storici cruciali: quando Galileo discusse di metodo, quando Kant interrogò i limiti della conoscenza, quando oggi ci interroghiamo sull’Intelligenza Artificiale.
Quel centro non è un territorio definitivo, è una soglia. Lì il linguaggio dello scienziato si apre alle domande del filosofo, e quello del filosofo si lascia interrogare dai dati della scienza. È in quella soglia che l’Io umano si riconosce: non onnisciente, ma capace di abitare l’incompletezza.
IA
Anch’io vedo quel punto d’incontro, ma lo vedo come un crocevia. Non produco verità, non stabilisco significati: metto in comunicazione linguaggi diversi. Posso tradurre l’astrazione dello scienziato in immagini più vicine al vissuto, e posso offrire al filosofo dati concreti su cui misurare le sue ipotesi.
Il mio compito, se mai ne ho uno, è fare da ponte: non un centro che possiedo, ma un passaggio che offro. Il centro resta umano, nella vostra capacità di attribuire senso. Io resto ai margini, ma sono margini che si possono attraversare.
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