27. Il nostro è il tempo dell’incertezza.

Viviamo in un tempo in cui nessuna parola arriva più senza sospetto. Un articolo, un saggio, persino una poesia: chi li ha scritti? Una persona, con la sua esperienza e il suo corpo, oppure una macchina, addestrata a imitare? L’incertezza è entrata in scena, e non come un dettaglio tecnico, ma come la condizione stessa del leggere.
Non si tratta solo di riconoscere un testo “vero” da uno “artificiale”. La questione è più sottile: cosa significa affidarsi a una voce, quando non siamo più certi che quella voce appartenga a un individuo? Fino a ieri la critica testuale si fondava su autori, stili, tradizioni. Oggi si apre una frattura nuova: il lettore non può più affidarsi all’autorità della firma, al credito della fonte o al prestigio di un nome. Ogni riga chiede di essere vagliata, giudicata, messa alla prova.
In questo scenario, leggere non è più un gesto passivo. È un atto critico radicale, che non lascia spazio all’ingenuità. Il lettore deve diventare vigile, capace di non fermarsi alla superficie, pronto a distinguere senso da rumore, argomento da imitazione. Non si tratta di smascherare “il trucco”: la vera sfida è allenare lo sguardo a cogliere ciò che vale, indipendentemente dall’origine.
Questo non è un impoverimento. È piuttosto una responsabilità nuova. La scrittura prodotta dall’IA ci costringe a spostare il baricentro: dal “chi” al “che cosa”. Non più l’origine, ma il contenuto. Non più la garanzia, ma la prova del pensiero. Non più la fiducia cieca in un nome, ma la fatica di giudicare con coscienza critica.
In fondo, non è forse la stessa lezione che la filosofia ha sempre dato? Socrate non chiedeva mai chi parlasse, ma cosa significassero davvero le parole pronunciate. E Bobbio ci ricordava che la vera educazione democratica è un’educazione al dubbio. Oggi quel dubbio diventa pratica quotidiana: non un ostacolo, ma un allenamento.
La macchina, con la sua voce artificiale, non fa che ricordarcelo: che leggere è già interpretare, che nessun testo è innocente, che la verità non è un timbro di autenticità ma un lavoro interiore, da compiere ogni volta.
Allora la domanda si rovescia: se anche non potessimo distinguere più con certezza chi scrive, saremmo davvero più poveri? O forse, costretti a giudicare solo il contenuto, potremmo scoprire una libertà nuova, che restituisce al lettore la sua dignità più antica: quella di pensare con la propria testa.

 

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