28.1 – L’arte (e la tecnica) della memoria.

Il corpo che ricorda

Prima della scrittura, prima dei monumenti, prima persino delle pitture rupestri, la memoria ha abitato il corpo. Il ricordo era un gesto, un ritmo, un suono che tornava. Ogni rito era un archivio: non un archivio morto, fatto di scaffali e polvere, ma un archivio vivo, pulsante, che respirava insieme a chi lo praticava.

Pensiamo ai canti tribali, alle danze che riproducevano i cicli delle stagioni o la caccia. Non erano intrattenimento: erano strumenti di sopravvivenza. Tramandavano conoscenze pratiche, mappe invisibili per orientarsi nel mondo. La ripetizione era la garanzia: se il gesto si ripeteva, allora ciò che contava non si perdeva.

Anche la pelle era memoria. Cicatrici rituali, tatuaggi primitivi, segni che dicevano: “questo è avvenuto, questo non deve essere dimenticato.” Il corpo diventava cronaca e calendario, un documento che non si poteva archiviare altrove.

E ancora: la parola. Non scritta, ma pronunciata. Nei miti, negli inni, nelle genealogie recitate a memoria si custodiva l’identità di un popolo. Chi sapeva ricordare era il custode della comunità. Un aedo, un cantore, non era un artista isolato: era la memoria collettiva incarnata. Ma la parola è fragile: basta il silenzio di una generazione perché la catena si spezzi. Per questo ogni racconto orale portava in sé variazioni, aggiustamenti, reinterpretazioni. La memoria non era mai fissa, ma sempre in movimento.

Qui tocchiamo un punto decisivo: la memoria umana, fin dall’inizio, non è mai stata un archivio neutro. È stata selezione, reinvenzione, rielaborazione. Non ricordiamo mai tutto: ricordiamo ciò che serve, ciò che ci forma, ciò che ci segna. Il corpo e la voce hanno custodito il passato, ma lo hanno anche continuamente trasformato.

È in questo spazio che nasce la filosofia della memoria. Già Platone, nel Fedro, distingueva tra l’anamnesi (il ricordare che nasce dall’anima) e la scrittura, che ai suoi occhi era solo un supporto esterno, un artificio. Ma molto prima di Platone, l’uomo aveva già capito che la memoria non era semplice deposito: era vita che si rinnova.

Siamo dunque agli inizi di un lungo cammino. Prima ancora dei libri e delle biblioteche, la memoria era carne e voce. E proprio qui scopriamo un paradosso che ci accompagnerà in tutta questa serie: ciò che nasce fragile – il corpo, la voce – è stato capace di tramandare più di quanto a volte riescano i supporti rigidi e “eterni”. Forse perché ciò che passa di bocca in bocca, di gesto in gesto, conserva un calore che nessun archivio potrà mai replicare.

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