28.4 – L’arte (e la tecnica) della memoria. Quarta parte.

Pagina precedente

Le immagini in movimento

La memoria non è mai stata un’entità astratta. È sempre passata per una materia: pietra, argilla, papiro, pergamena, carta. Ogni epoca ha affidato il proprio ricordo a un corpo fisico, a un supporto che potesse durare più dell’uomo. Anche la memoria, come la parola, ha avuto bisogno di incarnarsi.

La pietra conservava per secoli, ma parlava solo per immagini o incisioni. Il papiro era più leggero, ma fragile; la pergamena più resistente, ma costosa; la carta più economica, ma soggetta all’umidità e al fuoco. Ogni materiale portava con sé una speranza e una condanna. L’uomo non smetteva di cercare la sostanza giusta per trattenere il tempo.

Poi venne la fotografia. Per la prima volta la memoria trovò un corpo non soltanto solido ma sensibile. L’immagine si fissava sulla lastra attraverso un processo chimico, e in quella reazione tra luce e materia accadeva qualcosa di nuovo: il tempo lasciava una traccia diretta, senza intermediari. La fotografia non descriveva il mondo, lo imprigionava. Era la pietra alchemica della memoria moderna: un punto in cui la materia reagiva al passaggio della luce per rendere visibile ciò che era già svanito.

Ogni negativo fotografico è un piccolo paradosso: un’assenza che genera presenza, una traccia del reale che vive nella sua stessa dissolvenza. Da quel momento la memoria non si limita più a scrivere o scolpire: sviluppa, impressiona, fissa chimicamente. L’atto del ricordare si sposta dai segni visibili alla reazione invisibile degli elementi.

Con il cinema questa rivoluzione si moltiplica. Non è più un’immagine a fermarsi, ma migliaia di immagini che scorrono, dando l’illusione del movimento. Ogni fotogramma è un frammento di tempo catturato e ripetuto, ma l’insieme diventa flusso. La memoria si fa dinamica, non più monumento, ma corrente.

Nel nastro di celluloide la memoria si dilata: è ancora materia, ma trasparente, leggera, percorsa da sostanze sensibili. L’argento, il bromuro, l’alogenuro diventano gli alleati invisibili dell’uomo che non vuole dimenticare. La memoria chimica è più fedele del papiro e più volubile della carta. Brucia, si consuma, si decompone, ma finché dura restituisce il mondo con una precisione spietata.

Il cinema, nato dall’incontro fra arte e scienza, ha reso la memoria un’esperienza condivisa. L’immagine che si muove non appartiene più a chi l’ha prodotta: vive nello sguardo di chi la riceve. È la prima forma di memoria collettiva che si manifesta come spettacolo, come rito laico. Nelle sale buie del Novecento, la memoria diventa pubblica. Tutti possono vedere lo stesso passato, nello stesso momento, e commuoversi di fronte alla stessa illusione di vita.

Ma ciò che affascina non è solo il racconto o la bellezza delle immagini. È la consapevolezza che la memoria, ormai, si è spinta fino ai limiti della materia. Dal peso della pietra alla leggerezza della luce. Dai segni incisi con scalpello ai cristalli d’argento che reagiscono in pochi istanti. Ogni nuova sostanza ha dilatato il potere del ricordo, spingendo la memoria sempre più vicino all’immateriale, ma senza mai staccarsene del tutto.

Dietro la magia del cinema resta la sua natura più profonda: una memoria chimica che non sa durare, che sbiadisce, che si corrompe. Come la pietra, anche la pellicola si sgretola; come il papiro, teme il fuoco e l’umidità. L’illusione della permanenza si accompagna sempre alla certezza della perdita.

Il cinema non ha inventato una memoria eterna: ha solo mostrato che il ricordo, per vivere, deve continuamente trasformarsi. È una lezione antica, scritta già nella materia dei primi segni. Ogni supporto porta con sé una promessa e un limite. È lì, nel fragile equilibrio tra resistenza e dissoluzione, che la memoria riconosce se stessa.

Pagina seguente

Lascia un commento