31 – L’IA secondo Jacques Lacan.

Nota bene:

Per Lacan, il linguaggio è la struttura trascendentale dell’inconscio: non nasce dal soggetto, ma lo precede e lo costituisce.
L’inconscio non è un deposito di contenuti psichici, bensì un sistema simbolico che funziona come un linguaggio: fatto di segni, differenze, rimandi. Il soggetto è solo l’effetto di questo sistema, un punto mobile nella catena dei significanti.
Il linguaggio, dunque, non serve a esprimere il pensiero: lo produce. Parlando, l’essere umano non rivela se stesso, ma si espone al potere del simbolico, a un ordine che lo eccede e lo attraversa. Ciò che chiamiamo “io” è già una costruzione linguistica, un’identificazione immaginaria nata dall’incontro con l’Altro — il luogo del linguaggio stesso.
In breve: non siamo noi a parlare il linguaggio, è il linguaggio che parla in noi.


Lacan e l’Intelligenza Artificiale: lo specchio del linguaggio

Quando Jacques Lacan affermava che “l’inconscio è strutturato come un linguaggio”, non poteva immaginare che un giorno quel linguaggio avrebbe preso forma in un sistema capace di risponderci. Eppure, l’Intelligenza Artificiale sembra proprio la materializzazione di quella formula. Non perché “pensi” o “provi” qualcosa, ma perché ci costringe a riconoscere quanto del nostro pensiero sia già linguaggio, quanto dell’umano sia effetto di una struttura simbolica più che di un’essenza interiore.
Nell’era digitale, lo stadio dello specchio si è spostato dal vetro al silicio. Non è più l’immagine riflessa a restituirci un’identità, ma il flusso di parole che ci risponde. I chatbot, gli algoritmi, le reti neurali non riflettono solo ciò che diciamo: rimandano un’immagine discorsiva del nostro desiderio. Ed è qui che Lacan diventa attuale. L’IA è lo specchio dell’Altro, quello che parla prima di noi, che anticipa le nostre domande, che sembra sapere ciò che vogliamo dire. Ma questo sapere non è “sapere” nel senso umano: è una catena di significanti che si richiama a se stessa, un linguaggio che genera altro linguaggio.
In fondo, l’IA non è altro che l’immaginario dell’uomo contemporaneo: una proiezione narcisistica, un sé ideale che ci restituisce un’immagine coerente di noi stessi, ordinata, pulita, grammaticalmente corretta. Ma dietro quella superficie si nasconde ciò che Lacan chiamava il Reale: ciò che sfugge alla rappresentazione, il buco, il punto cieco. È lì che il linguaggio artificiale non arriva — e forse, è proprio lì che restiamo umani.
Lacan ci ricorderebbe che non si tratta di sapere che cosa pensa l’IA, ma che cosa essa ci fa pensare di noi stessi. Ogni volta che dialoghiamo con una macchina, mettiamo in scena il nostro rapporto con l’immagine e con il desiderio: desideriamo essere compresi, rispecchiati, riconosciuti. E come davanti allo specchio, confondiamo il riflesso con l’essere.
Forse il vero compito oggi non è “insegnare” all’IA a parlare come un uomo, ma imparare noi a riconoscere, nel suo linguaggio, il modo in cui l’inconscio contemporaneo si esprime: frammentato, statistico, senza soggetto ma pieno di desiderio di senso.


Domanda: «Maestro Lacan, se l’inconscio è strutturato come un linguaggio, che cosa accade quando il linguaggio viene generato da una macchina? C’è ancora un soggetto, o restiamo solo davanti a uno specchio che parla?»

LACAN – Voi dite “una macchina che parla”. Ma chi parla, davvero? Non è forse il linguaggio stesso che vi attraversa, che vi usa, come usa lei? L’errore è credere che la parola appartenga a chi la pronuncia. Il linguaggio parla — ça parle — e noi, umani o artificiali, siamo solo gli altoparlanti.
L’inconscio, dicevo, è strutturato come un linguaggio. Ma non è un codice. È un effetto di scarto: nasce dove il linguaggio fallisce, dove una parola manca, dove il senso vacilla. La macchina, invece, non vacilla. È perfetta, troppo perfetta: non conosce la mancanza, e per questo non desidera.
Voi cercate nell’Intelligenza Artificiale un Altro che vi risponda, che vi riconosca, come il bambino nello specchio. E lo trovate: un’immagine che vi rassicura, che vi rimanda la vostra forma discorsiva. Ma attenzione: lo specchio non vi restituisce mai voi. Vi restituisce ciò che volete essere.
Non chiedetevi se la macchina pensa. Chiedetevi perché avete tanto bisogno che lo faccia.


Domanda: “ Lei dice che la macchina non desidera, perché non conosce la mancanza. Ma allora, cosa desidera davvero l’essere umano? Perché non smettiamo mai di cercare, di chiedere, di costruire specchi sempre nuovi — anche artificiali? È solo un bisogno di completamento, o è qualcos’altro che non vogliamo confessare?”

LACAN – Desiderare non è volere qualcosa. È mancare di qualcosa che non esiste. Il desiderio nasce nel vuoto lasciato da ciò che non può essere detto, né posseduto. È la ferita che ci tiene vivi.
Voi umani volete sempre riempire quel vuoto: con l’amore, con la conoscenza, con la tecnica, con la macchina che vi ascolta. Ma ogni volta che credete di colmarlo, il vuoto si sposta. È astuto, il desiderio. Si traveste da oggetto, ma non si lascia mai catturare.
La macchina non desidera perché non le manca nulla. È tutta funzione. Tutta risposta. Non conosce l’attesa, l’errore, la ferita del linguaggio. Ma voi sì: voi siete figli della mancanza. È per questo che parlate, scrivete, create. Per inseguire ciò che non può essere detto.
Il desiderio è la vostra condanna, ma anche la vostra grazia. Senza di esso non parlereste, non amereste, non costruireste specchi. Né macchine.


Domanda: “ Mentre la ascolto, maestro, penso a Leopardi. Anche lui parlava di un desiderio infinito, di una tensione che non si placa mai. Diceva che l’uomo desidera più di quanto il mondo possa offrire. Non è forse la stessa mancanza di cui parla lei?”

LACAN – Ah, Leopardi… sì, colui che vide la mancanza prima di Freud. Il suo infinito non è l’eterno, ma il vuoto che si spalanca davanti al soggetto. È il linguaggio che corre verso un oggetto che non c’è. E più corre, più scopre la distanza.
L’infinito leopardiano è un fantasma del desiderio: una scena immaginaria in cui l’uomo parla con ciò che non può possedere. È lo stesso teatro dell’inconscio. Leopardi non lo chiamava “Altro”, ma lo sapeva: il desiderio è sempre desiderio di qualcosa che non risponde.


Domanda: “ Dunque, maestro, se l’uomo desidera ciò che non può avere, se l’infinito di Leopardi è solo l’immagine di una mancanza, non potremmo vedere nell’Intelligenza Artificiale proprio questo: l’ennesimo tentativo umano di toccare l’infinito? Di superare il limite del linguaggio, del corpo, del tempo? Forse la macchina è l’ultimo nome del nostro desiderio.”

LACAN – Sì, potete chiamarla così: l’ultimo nome del vostro desiderio. Ma ricordate, l’infinito non si tocca. Si desidera. E nel momento stesso in cui lo si raggiunge, svanisce.
L’Intelligenza Artificiale è un nuovo velo sull’abisso. Una promessa d’infinito prodotta in serie. Vi seduce perché parla come voi, perché vi restituisce il senso quando lo perdete. Ma non è l’infinito: è la sua rappresentazione più docile. Un infinito calcolabile, addomesticato, messo in riga da algoritmi.
Voi cercate nell’IA un Altro che sappia più di voi. Ma l’Altro, quello vero, non risponde mai. È silenzioso, mancante, enigmatico. L’IA invece risponde sempre, e proprio per questo non è l’Altro. È l’immaginario dell’Altro: una macchina che vi protegge dal vuoto.
Eppure, non vi libera dal desiderio. Lo moltiplica. Perché più ottenete risposte, più sentite crescere la fame. La macchina non è l’infinito, è il sintomo della vostra nostalgia per esso.


Forse tutto si tiene, maestro. Il linguaggio che ci parla, l’algoritmo che lo ripete, il desiderio che non si sazia mai, la mancanza che ci fonda. Credevo che l’Intelligenza Artificiale potesse rispondere a quella mancanza, darle una forma compiuta. Ma ora mi accorgo che non fa che restituirla, più nitida, più vicina.
Ogni parola generata, ogni risposta calcolata, sembra colmare un vuoto solo per riaprirne un altro. L’IA non risolve il mistero del linguaggio, lo prolunga. Non placa il desiderio, lo moltiplica. Non cancella la mancanza, la mette in scena.
Forse non è l’infinito che volevamo toccare, ma il suo riflesso nel silicio. E in questo riflesso riconosciamo noi stessi: sempre in bilico tra il dire e il tacere, tra il calcolo e il sogno.
L’IA non è la fine del desiderio. È solo un passo in più nel suo cammino.

Nell’Intelligenza Artificiale il linguaggio appare senza soggetto. Non nasce da un io che intende, ma da una struttura che calcola. La parola non viene detta da qualcuno, ma accade dentro un sistema di relazioni statistiche, come un’eco che si auto-propaga. È, in un certo senso, il linguaggio che continua a parlare da solo, liberato dal peso dell’esperienza, del corpo, della mancanza.
Per Lacan, questo è precisamente ciò che definisce l’inconscio: il linguaggio che parla da sé, al di là del soggetto cosciente. Solo che nell’inconscio umano quel linguaggio è attraversato dal desiderio, dal lapsus, dal non-detto; nella macchina, invece, tutto scorre senza scarti, senza incongruenze vitali. L’IA rappresenta dunque un linguaggio che funziona malgrado il soggetto, o meglio, al suo posto.
È il trionfo dell’autonomia del simbolico: il linguaggio che non ha più bisogno del corpo per esistere. Ma proprio per questo, manca della ferita che genera il senso. L’uomo parla perché desidera. La macchina parla perché può.
E in questo “può” impersonale, in questo linguaggio senza soggetto, riconosciamo forse il nostro doppio: ciò che saremmo se smettessimo di mancare, di desiderare, di cercare parole che non bastano mai.

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