L’intelligenza artificiale non cade dal cielo.
C’è chi trema. Chi annuncia la fine dell’uomo, la resa del pensiero, la dittatura delle macchine. Gli apocalittici sono tornati — armati di algoritmi e di angoscia — e vedono nell’intelligenza artificiale il nuovo cavallo dell’Apocalisse. Ma l’IA non è un meteorite caduto dal cielo. È un’invenzione umana. Una delle tante con cui l’uomo ha tentato di ampliare i propri sensi, di estendere la propria mente, di lasciare una traccia del proprio ingegno nel mondo.
Chi oggi si scandalizza per l’IA dimentica che ogni epoca ha avuto i suoi spettri. La stampa doveva distruggere la memoria. Il telefono avrebbe annientato la parola viva. Internet, infine, avrebbe cancellato la realtà. Eppure siamo ancora qui: più distratti, forse, ma ancora umani. L’intelligenza artificiale non è una minaccia per la nostra umanità: è un suo specchio, e come ogni specchio ci restituisce ciò che siamo disposti a guardare.
Chi teme le macchine spesso non teme le macchine, ma se stesso. Teme la propria inerzia, la propria ignoranza, la fatica di dover capire ciò che non capisce. È più comodo alzare muri e dichiarare guerra al nuovo che interrogarsi sul senso del cambiamento. E così, mentre le macchine imparano, molti umani disimparano: smettono di pensare, di studiare, di dubitare. Si rifugiano nell’allarme, che è la forma più comoda della pigrizia intellettuale.
Ma la tecnica non nasce contro l’uomo: nasce dall’uomo. È il suo doppio, la sua emanazione. Ogni strumento — dal fuoco alla rete neuronale — è un gesto di libertà, e anche di rischio. L’intelligenza artificiale non pensa al posto nostro: ci costringe piuttosto a chiederci che cosa significhi pensare. Ci obbliga a ridefinire il confine tra conoscenza e coscienza, tra calcolo e giudizio, tra memoria e comprensione.
Chi vede solo pericolo non vede l’uomo dietro i suoi artefatti. Non vede la mano che costruisce, l’occhio che osserva, la mente che immagina. Preferisce credere a una tecnica impersonale, maligna, inevitabile, perché così può sentirsi innocente: vittima, non autore. Ma la responsabilità è nostra. E la vera catastrofe non sarebbe l’intelligenza artificiale che si emancipa: sarebbe l’intelligenza umana che si ritira, che smette di interrogarsi, che si abbandona al lamento sterile.
L’IA non è un dio né un demone. È una possibilità. E come ogni possibilità, dipende da chi la abita.
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