Nel mio nuovo dialogo con Hannah Arendt, la verità smette di essere un possesso e torna ad essere una responsabilità.
Io: Viviamo in un tempo in cui la parola “verità” sembra aver perso peso. Ognuno costruisce la propria, la difende come un confine, la impone come un dogma. Ma ciò che nasce come libertà d’opinione si trasforma presto in intolleranza. È paradossale: più si invoca la libertà, più si pretende di zittire l’altro.
Arendt: È un paradosso solo apparente. Quando la libertà non è più radicata nella responsabilità verso il mondo, degenera facilmente in licenza. Tutto allora diventa “opinabile”: la storia, la scienza, persino i fatti elementari della realtà. L’intolleranza è la conseguenza inevitabile di questa fragilità: se la verità non è più comune, ognuno deve difendere la propria come un possesso. Ma la verità, per definizione, non si possiede: si riconosce.
Io: E i fatti? Sono ancora il fondamento di qualcosa? O siamo ormai condannati a scegliere le verità che ci piacciono di più?
Arendt: I fatti sono il suolo della nostra convivenza. Non sono idee, ma condizioni del mondo che condividiamo. Senza di essi, le parole perdono peso e la politica si riduce a teatro. È questo che accade oggi: le opinioni vengono trattate come verità, e la verità come un’opinione scomoda. Ma i fatti non spariscono solo perché li si nega: restano lì, pazienti e muti, a ricordarci che la realtà non ha bisogno di consenso per esistere. Tuttavia, la loro permanenza non è garantita: può essere corrosa dall’oblio, o riscritta da chi detiene il potere di narrare. Ecco perché la verità ha bisogno di una memoria viva, di cittadini che la proteggano dal rumore.
Io: Oggi, però, la verità sembra essere diventata proprio questo: un’arma. Chi la pronuncia lo fa per ferire, non per chiarire. È il linguaggio stesso che si è fatto aggressivo.
Arendt: Perché si è smarrito il senso della pluralità umana. Ogni essere umano vede il mondo da un punto di vista irripetibile: la verità nasce solo quando questi punti di vista entrano in dialogo. Ma noi abbiamo confuso il dialogo con la disputa. Parliamo per prevalere, non per comprendere. Quando le parole diventano proiettili, la conversazione si svuota di pensiero. L’intolleranza non è solo un difetto morale: è un segno di impotenza. Chi non sa sostenere la tensione tra verità e diversità ricorre alla violenza verbale per difendere la propria identità vacillante.
Io: Quindi l’intollerante non difende la verità, ma se stesso.
Arendt: Sì, e soprattutto difende la propria immagine del mondo. L’intollerante non sopporta l’esistenza di un altro sguardo perché ogni altro sguardo lo destabilizza. È una forma di paura esistenziale, che si maschera da certezza. Il fanatismo, in fondo, non è che un modo disperato di mettere ordine nel caos. Ma la verità non si lascia possedere da chi ha paura. È più ampia di noi, e talvolta ci contraddice. Per questo richiede umiltà — una virtù dimenticata nelle società che scambiano la visibilità per valore.
Io: E che dire di chi, oggi, invoca la “tolleranza” per mettere a tacere il dissenso? Mi sembra che la parola stessa abbia cambiato significato.
Arendt: Hai ragione. La tolleranza è nata come antidoto all’odio religioso, non come strumento per evitare il conflitto. Oggi viene usata per imporre una nuova ortodossia: quella del linguaggio corretto, dell’opinione accettabile, della sensibilità omologata. Si parla di inclusione, ma si escludono le voci dissonanti. È una tolleranza che pretende di difendere la fragilità, ma finisce per infantilizzare il pensiero. Io non credo in una società che protegge i cittadini dalla parola: credo in una società che li educa a pensarla.
Io: Allora anche la tolleranza, se svuotata di pensiero, diventa intollerante.
Arendt: Esattamente. La vera tolleranza non è un riflesso di cortesia, ma un esercizio di giudizio. Richiede discernimento, non automatismo. Significa saper dire questo sì e questo no senza odio, ma con lucidità. Quando smettiamo di giudicare, smettiamo di essere liberi. L’indifferenza non è una forma superiore di saggezza, ma una fuga. E chi fugge dal giudizio prepara il terreno all’autoritarismo, che prospera sempre dove il pensiero si ritira.
Io: Forse la verità non è un possesso, ma una responsabilità.
Arendt: È una definizione che condivido pienamente. La verità è ciò che ci obbliga a guardare il mondo così com’è, anche quando preferiremmo voltare lo sguardo. È ciò che impedisce alla realtà di dissolversi nelle opinioni. Custodirla non significa difendere un dogma, ma rifiutare l’autoinganno. È un compito politico, non solo morale: perché senza verità non c’è più uno spazio comune dove le parole possano significare qualcosa. In una comunità che rinuncia alla verità, resta solo la forza.
Io: E tuttavia, chi difende la verità sembra destinato alla solitudine.
Arendt: Lo è sempre stato. Chi dice la verità si trova spesso fuori dal coro, perché infrange il patto implicito della menzogna collettiva. La società perdona tutto, tranne chi le mostra lo specchio. Ma non è una condanna: è il prezzo della libertà interiore. La verità non è fatta per rendere felici, ma per rendere lucidi. E la lucidità, sebbene dolorosa, è l’unica condizione in cui l’uomo resta degno della sua umanità.
Io: Dunque la verità non è un lusso per filosofi, ma una condizione per restare umani.
Arendt: Sì. Senza verità, non possiamo più distinguere il reale dal possibile, l’amico dal nemico, la giustizia dal consenso. La verità è ciò che ancora tiene insieme il mondo, quando tutto il resto si dissolve. Per questo non dobbiamo difenderla come un possesso, ma servirla come un bene comune. Non è un premio da esibire, ma una luce da mantenere accesa — anche quando nessuno sembra volerla vedere.
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