41. Dante e i populisti. Un canto apocrifo della Divina Commedia.

Da Dante all’IA: una Divina commedia algoritmica

Questo breve canto nasce da un gioco serio: chiedere a un’intelligenza artificiale di scrivere come Dante, ma sul nostro presente politico.
Ne è uscito un inferno attualissimo, dove le parole bruciano più dei peccati.
Dante condannava chi tradiva la verità del linguaggio; oggi il populismo fa lo stesso, solo con microfoni e social.
L’esperimento non vuole imitare il poeta, ma mostrarci quanto poco sia cambiato: la lingua, quando mente, resta sempre il primo cerchio dell’inferno.


Giacean due ombre sotto il piovente olio,
ch’a goccia a goccia rode carne e fama,
gridando ognuno il nome del suo orgoglio.

Uno vestia d’umiltà vana e brama,
l’altro di croce e patria si facea scudo,
ma l’un e l’altro in frode avea la brama.

Già sotto l’olio gridan Conte e Salvini,
che il volto a gocce lorde il foco svena,
e cuocion l’ira e i voti cittadini.

Di sé ciascun si lagna e si dispera,
ché il rossor della colpa più li rode
che non l’ardor che li consuma a pena.

Allor mi volsi al duca e dissi: «Maestro,
qual colpa fe’ costor sì neri e lenti,
che ’l foco par vergogna, e l’onta il cestro?»

Ed ei: «Fingendo amor de’ sofferenti,
volsero in merce il pianto e la paura,
e il popol trasson giù con dolci accenti.»

«Sappi,» riprese, «che ’l parlar soave
fu rete tesa a pigliar l’alme stanche,
che in sogno preser libertà per chiave.

Promesson pane, e diedero le branche,
ché sotto il manto di pietà e decoro
celâr desio di regnar su le panche.»

Allor chinai la fronte e dissi: «O padre,
vedi come si torcon nell’inganno
color che il popol fecero a sé cadere!»

Ed ei: «Chi semina voce e non affanno
raccoglie vento, e in sé medesmo langue:
così del ver si fa mercato e danno.»

Ed ecco Gèrion venir dal fondo oscuro,
con viso d’uom cortese e lingua piana,
ma ’l dorso serpe e l’occhio avvolto al muro.

Parlando dolce, a l’aria fa fontana:
«Qui stan color che il ver vestirono in rima,
e il cor mutâr in piazza e in settimana.»

«Io son colui che mena i detti al suono,
servo dei plausi e mastro di sembiante,
che fece d’ogni bocca un trono buono.

A me si piega chi promette e giura,
chi parla al vento e chi del vento vive,
ché in frode il ver s’impara e si figura.

Qui l’olio eterno brucia le derive
d’ogni parola nata per consenso,
ché il lume lor non fu mai lume, ma bive.

Così li tengo, e il foco fa da senso,
ché chi mentì di popolo e di fede
ora s’infiamma e tace nel silenzio.»

Tacqui, ché in me vergogna era e paura,
e parve ch’ogne voce avesse il morso,
mentr’io seguìa ’l mio duca verso oscura.


Analisi linguistica dei termini rari

1) “che ’l foco par vergogna, e l’onta il cestro?”
Cestro è termine raro, dal latino caestrum, “pungolo”, “arnese da ferire” (usato talvolta in poesia per indicare lo strumento del supplizio). Qui assume il valore metaforico di flagello della coscienza: la vergogna è più dolorosa del fuoco stesso, e l’onta punge come un ferro rovente.
– La costruzione antitetica il foco par vergogna rovescia la consueta gerarchia fisico-morale: non è il calore materiale a tormentare i dannati, ma il bruciore interiore del disonore.

2) “Promesson pane, e diedero le branche”
Branche (plurale poetico di branca) deriva dal francese antico branche, ramo, e per estensione zampa d’animale feroce. Qui significa artiglio, presa crudele.
– Il verso allude alla promessa populista tradita: “promisero pane”, cioè sostegno e giustizia sociale, ma offrirono “le branche”, gli artigli del potere che afferra e lacera.
– Il contrasto pane/branca rientra nella poetica dantesca della contrappassio: ciò che fu detto per nutrire diventa ciò che dilania.

3) “ché il lume lor non fu mai lume, ma bive”
Bive è voce arcaica, da bifis (doppio, ambiguo): indica fiamma sdoppiata o fuoco biforcuto, simbolo di luce falsa e inganno.
– Il verso esprime la corruzione della conoscenza: i populisti non ebbero vera luce (cioè discernimento o verità), ma un bive, una torcia che si divide, metafora della duplicità morale e linguistica.
– La rima con vive e derive rafforza fonicamente il senso di oscillazione e instabilità.


Fonti e risonanze

Il canto dei Populisti si radica nel modello dantesco della froda linguistica, già esemplata nei barattieri e nei seminatori di discordia. Come in quelle bolge, il peccato non è solo morale, ma retorico: deformare la parola, che dovrebbe unire, per trarne vantaggio terreno.

La figura di Gèrion, reinterpretata come guardiano del linguaggio, rinnova l’antico simbolo del mostro “dal viso d’uom giusto, e di serpe il rimanente” (Inf. XVII, 10-11). Egli incarna qui la metamorfosi del verbo politico in spettacolo: il volto umano seduce, la coda ferisce.

Il contrappasso è triplice:

  1. L’olio bollente punisce la falsità che si fece calore di folla e clamore di piazza.
  2. Il rossore della vergogna sostituisce la fiamma esterna con la combustione interiore della menzogna.
  3. La parola che si sdoppia in “bive” rappresenta la luce tradita, l’eloquenza ridotta a slogan.

Dante — o chi lo riscrive oggi — afferma che il male politico nasce dal linguaggio corrotto. Laddove la parola diventa strumento di potere, il popolo è ingannato e il fuoco della retorica si muta in fuoco dell’Inferno.

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