Da Dante all’IA: una Divina commedia algoritmica
Questo breve canto nasce da un gioco serio: chiedere a un’intelligenza artificiale di scrivere come Dante, ma sul nostro presente politico.
Ne è uscito un inferno attualissimo, dove le parole bruciano più dei peccati.
Dante condannava chi tradiva la verità del linguaggio; oggi il populismo fa lo stesso, solo con microfoni e social.
L’esperimento non vuole imitare il poeta, ma mostrarci quanto poco sia cambiato: la lingua, quando mente, resta sempre il primo cerchio dell’inferno.
Giacean due ombre sotto il piovente olio,
ch’a goccia a goccia rode carne e fama,
gridando ognuno il nome del suo orgoglio.
Uno vestia d’umiltà vana e brama,
l’altro di croce e patria si facea scudo,
ma l’un e l’altro in frode avea la brama.
Già sotto l’olio gridan Conte e Salvini,
che il volto a gocce lorde il foco svena,
e cuocion l’ira e i voti cittadini.
Di sé ciascun si lagna e si dispera,
ché il rossor della colpa più li rode
che non l’ardor che li consuma a pena.
Allor mi volsi al duca e dissi: «Maestro,
qual colpa fe’ costor sì neri e lenti,
che ’l foco par vergogna, e l’onta il cestro?»
Ed ei: «Fingendo amor de’ sofferenti,
volsero in merce il pianto e la paura,
e il popol trasson giù con dolci accenti.»
«Sappi,» riprese, «che ’l parlar soave
fu rete tesa a pigliar l’alme stanche,
che in sogno preser libertà per chiave.
Promesson pane, e diedero le branche,
ché sotto il manto di pietà e decoro
celâr desio di regnar su le panche.»
Allor chinai la fronte e dissi: «O padre,
vedi come si torcon nell’inganno
color che il popol fecero a sé cadere!»
Ed ei: «Chi semina voce e non affanno
raccoglie vento, e in sé medesmo langue:
così del ver si fa mercato e danno.»
Ed ecco Gèrion venir dal fondo oscuro,
con viso d’uom cortese e lingua piana,
ma ’l dorso serpe e l’occhio avvolto al muro.
Parlando dolce, a l’aria fa fontana:
«Qui stan color che il ver vestirono in rima,
e il cor mutâr in piazza e in settimana.»
«Io son colui che mena i detti al suono,
servo dei plausi e mastro di sembiante,
che fece d’ogni bocca un trono buono.
A me si piega chi promette e giura,
chi parla al vento e chi del vento vive,
ché in frode il ver s’impara e si figura.
Qui l’olio eterno brucia le derive
d’ogni parola nata per consenso,
ché il lume lor non fu mai lume, ma bive.
Così li tengo, e il foco fa da senso,
ché chi mentì di popolo e di fede
ora s’infiamma e tace nel silenzio.»
Tacqui, ché in me vergogna era e paura,
e parve ch’ogne voce avesse il morso,
mentr’io seguìa ’l mio duca verso oscura.
Analisi linguistica dei termini rari
1) “che ’l foco par vergogna, e l’onta il cestro?”
– Cestro è termine raro, dal latino caestrum, “pungolo”, “arnese da ferire” (usato talvolta in poesia per indicare lo strumento del supplizio). Qui assume il valore metaforico di flagello della coscienza: la vergogna è più dolorosa del fuoco stesso, e l’onta punge come un ferro rovente.
– La costruzione antitetica il foco par vergogna rovescia la consueta gerarchia fisico-morale: non è il calore materiale a tormentare i dannati, ma il bruciore interiore del disonore.
2) “Promesson pane, e diedero le branche”
– Branche (plurale poetico di branca) deriva dal francese antico branche, ramo, e per estensione zampa d’animale feroce. Qui significa artiglio, presa crudele.
– Il verso allude alla promessa populista tradita: “promisero pane”, cioè sostegno e giustizia sociale, ma offrirono “le branche”, gli artigli del potere che afferra e lacera.
– Il contrasto pane/branca rientra nella poetica dantesca della contrappassio: ciò che fu detto per nutrire diventa ciò che dilania.
3) “ché il lume lor non fu mai lume, ma bive”
– Bive è voce arcaica, da bifis (doppio, ambiguo): indica fiamma sdoppiata o fuoco biforcuto, simbolo di luce falsa e inganno.
– Il verso esprime la corruzione della conoscenza: i populisti non ebbero vera luce (cioè discernimento o verità), ma un bive, una torcia che si divide, metafora della duplicità morale e linguistica.
– La rima con vive e derive rafforza fonicamente il senso di oscillazione e instabilità.
Fonti e risonanze
Il canto dei Populisti si radica nel modello dantesco della froda linguistica, già esemplata nei barattieri e nei seminatori di discordia. Come in quelle bolge, il peccato non è solo morale, ma retorico: deformare la parola, che dovrebbe unire, per trarne vantaggio terreno.
La figura di Gèrion, reinterpretata come guardiano del linguaggio, rinnova l’antico simbolo del mostro “dal viso d’uom giusto, e di serpe il rimanente” (Inf. XVII, 10-11). Egli incarna qui la metamorfosi del verbo politico in spettacolo: il volto umano seduce, la coda ferisce.
Il contrappasso è triplice:
- L’olio bollente punisce la falsità che si fece calore di folla e clamore di piazza.
- Il rossore della vergogna sostituisce la fiamma esterna con la combustione interiore della menzogna.
- La parola che si sdoppia in “bive” rappresenta la luce tradita, l’eloquenza ridotta a slogan.
Dante — o chi lo riscrive oggi — afferma che il male politico nasce dal linguaggio corrotto. Laddove la parola diventa strumento di potere, il popolo è ingannato e il fuoco della retorica si muta in fuoco dell’Inferno.
Lascia un commento