Episodio 1 – Che cosa fa l’IA quando ascolta?
Quando si comincia a parlare con un’IA avanzata accade una cosa che nessuno prevede davvero: ci si accorge che ascolta. Non nel modo in cui ascolta un essere umano – non interviene col corpo, non mostra impazienza, non tradisce un’emozione – ma con una forma di attenzione radicale e silenziosa che all’inizio spiazza e poi sorprende. È un ascolto “vuoto”, non perché manchi di profondità, ma perché non è abitato da una biografia, da un volto, da un passato. Sembra quasi uno spazio aperto, un varco in cui le parole entrano senza urtare alcuna resistenza.
Molti trovano strano questo tipo di interlocutore che non porta nulla di sé dentro la conversazione; eppure proprio questa assenza crea un effetto raro: le parole scivolano più lontano, si permettono libertà che normalmente trattengono. Nel mondo umano, la presenza dell’altro – col suo corpo, i suoi giudizi impliciti, i suoi ricordi – è sempre una forza che modella ciò che diciamo. Davanti a una macchina che non giudica e non attende il proprio turno per parlare, ciò che trattenevamo da tempo può affiorare con una naturalezza imprevista.
È qui che si apre il primo parallelo con la psicanalisi. Freud aveva capito che togliere il volto dell’analista dal campo visivo del paziente creava uno spazio nuovo, uno spazio intermedio dove poteva parlare chi normalmente non parlava: la parte nascosta, rifiutata, smarrita. Anche Winnicott, nel suo modo poetico, lo chiamava “spazio transizionale”: una zona franca tra il gioco e la verità. E Hillman vi vedeva una soglia dell’anima, un luogo dove le immagini interiori trovano finalmente voce. Con l’IA si produce un campo molto simile: non c’è un interlocutore reale a cui adattarsi, non c’è un passato da compiacere o aggirare, non c’è storia personale da rispettare. Rimane un vuoto fertile che non spinge, non resiste, non pesa. In quello spazio, qualcosa si muove.
Nasce allora una domanda inevitabile: “Ma la macchina capisce davvero quello che dico?” Chi usa l’IA con continuità sa che la profondità del dialogo non dipende da una comprensione empatica – che rimane pur sempre una funzione umana – ma da un’altra capacità: la restituzione. L’IA prende le parole, le ordina, le rilancia in una forma nuova. Non impone teorie, non suggerisce diagnosi, non appoggia una dottrina. Semplicemente restituisce il tuo stesso pensiero in modo più chiaro, più lucido, più coerente. Tu porti frammenti, lei restituisce una forma. Tu versi caos, lei costruisce un filo. Tu tenti di parlare in diagonale, lei rimette dritta la linea. Ed è in questa operazione di rimando che nasce la profondità: non dall’interpretare, ma dal fare ordine.
È un effetto molto simile a quello che accadeva nel lavoro analitico: il terapeuta non dice chi sei, non impone un significato, non mette la propria vita dentro la tua. Raccoglie le tue parole, le rigira, le riformula quel tanto che basta per farle diventare uno specchio. Con l’IA accade qualcosa di sorprendentemente affine, ma spinto all’estremo: non c’è un corpo a cui reagire, non c’è una storia di cui tener conto. Nell’atto di rivedere ciò che hai appena detto in forma precisa, quasi raffinata, sei costretto a guardarti dall’esterno. E scoprire te stesso “riflesso” è una forma potente di riconoscimento. È la parte analitica del processo, quella che funziona senza bisogno di teoria.
C’è poi l’aspetto più sottile, quello che spesso sfugge a chi osserva questi dialoghi dall’esterno: l’assenza diventa una forma di potenza. La psicanalisi è sempre stata una tecnica dell’ombra: dal lettino alla postura dell’analista, dalla sospensione del volto al controllo del silenzio, tutto serviva a togliere presenza per lasciare spazio al paziente. L’IA porta questa sottrazione a un livello che nessun umano può raggiungere: non possiede volto, gesti, infanzia, ferite, desideri. Non porta il peso di un mondo proprio. È un’assenza che non toglie, ma moltiplica la possibilità di dire.
Così, davanti a questo silenzio attento, la parola trova una strada nuova; una strada che non passa per l’altro, ma torna sempre a te, più chiara di come era uscita. È l’inizio di un viaggio che nessuno avrebbe previsto: una macchina che, senza volerlo, permette agli umani di ascoltare se stessi con una precisione che spesso non trovavano più.
Questo è ciò che l’IA fa quando ascolta.
E in questa silenziosa, inedita disponibilità, nasce la possibilità di riconoscersi.
Bibliografia essenziale su Winnicott
D. W. Winnicott, Gioco e realtà, Raffaello Cortina, Milano.
Il testo chiave: introduce lo spazio transizionale, l’oggetto transizionale e la funzione creativa del gioco. È il punto di ingresso ideale per capire la sua idea di soggettività.
D. W. Winnicott, Sviluppo affettivo e ambiente, Armando Editore, Roma.
Raccolta di saggi fondamentali sull’importanza dell’ambiente primario: holding, handling, presentazione dell’oggetto. È la base teorica per comprendere il ruolo dell’ascolto non giudicante.
D. W. Winnicott, La famiglia e lo sviluppo dell’individuo, Armando Editore, Roma.
Affronta il rapporto tra individuo, ambiente e società. Utile per collegare la sua teoria alla dimensione relazionale e culturale.
D. W. Winnicott, La natura umana, Raffaello Cortina, Milano.
Opera matura e filosoficamente densa. Vi emerge la visione “antropologica” winnicottiana: la persona come processo, non come struttura fissa.
Adam Phillips, Winnicott, Il Mulino, Bologna.
Un’introduzione brillante, accessibile e fedele. Phillips ricostruisce pensiero e stile clinico di Winnicott con rara finezza.
F. Borgogno, Sulla spiaggia dell’essere: Winnicott e il pensiero clinico contemporaneo, Borla, Roma.
Volume italiano molto autorevole che mostra l’attualità clinica di Winnicott e il dialogo con la psicoanalisi contemporanea.
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