46. Apocalissi ricorrenti.

Televisione, computer e intelligenza artificiale: tre specchi della stessa paura

Ci sono stagioni della vita in cui ci si accorge che la storia non procede per scarti radicali, ma per variazioni su un tema sempre uguale.
È come ascoltare un compositore che, in fondo, riscrive la medesima melodia cambiando solo il timbro degli strumenti.
Così accade con la cultura di massa, e così è accaduto nella mia vita professionale: tre ondate di panico collettivo, tre presunte apocalissi, tutte centrate su un nuovo mezzo espressivo che sarebbe dovuto diventare — secondo molti — il carnefice della nostra civiltà.

Ho attraversato queste stagioni una dopo l’altra, con il rigore del docente e la curiosità dell’uomo che non teme le forme inedite del linguaggio.
Ed è impressionante quanto il copione sia rimasto identico.


1. La televisione: l’invasione delle immagini

Negli anni del boom economico, quando il televisore entrò nelle case italiane, si scatenò una tempesta morale senza precedenti.
Intellettuali, pedagogisti, moralisti, giornalisti: ognuno vedeva nello schermo un portale infernale capace di degradare l’anima degli spettatori.
Il linguaggio dell’immagine veniva percepito come qualcosa di ambiguo, sospetto, quasi diabolico: un mostro muto che avrebbe sedotto e smarrito la mente.

Nelle sale insegnanti e nei convegni, sentivo ripetere frasi come:

  • “I giovani non sapranno più leggere”;

  • “Perderanno la capacità di attenzione”;

  • “La televisione renderà tutti superficiali e manipolabili”.

La televisione diventava così una sorta di Leviatano culturale, responsabile in anticipo di ogni possibile deriva educativa.
Eppure, mentre il mondo adulto tremava, io in classe vedevo ragazzi capaci di leggere le immagini come si legge un testo complesso.
Notavano il montaggio, intuivano la costruzione narrativa, comprendevano ironie e sottintesi.
La televisione non li rendeva più stupidi: li costringeva a decodificare un nuovo alfabeto.

Il vero problema non era il mezzo.
Era la mancanza di educazione al mezzo.
E la scuola, per la prima volta, si trovava di fronte a un linguaggio che non aveva inventato e che non controllava.

La paura nasceva da lì.


2. Il computer: la minaccia digitale alla cultura umanistica

Quando il computer cominciò a diffondersi nelle scuole e nelle case, il copione si ripeté con una precisione quasi comica.
Il nuovo spauracchio era la tastiera, percepita come l’arma che avrebbe ucciso la scrittura a mano, la concentrazione, la grammatica, la profondità.

Gli allarmi erano ovunque:

  • “I ragazzi non sapranno più ortografia”;

  • “Il pensiero si farà frammentario”;

  • “Il libro verrà sostituito dallo schermo”.

Si ripeteva il mantra antico: ciò che è nuovo distruggerà ciò che è stato.
Ma la verità, come sempre, era più sottile.

Il computer non cancellava la scrittura: ne moltiplicava le forme.
Richiedeva altre competenze, altri ritmi mentali, altre capacità di organizzazione.
Gli studenti che imparavano a cercare, selezionare, confrontare fonti diverse sviluppavano una forma di attenzione più mobile, più laterale, più critica di quanto si credesse.

A ben vedere, la vera minaccia non era il computer.
Era l’inerzia culturale di chi non voleva adattarsi.
Perché il computer rendeva trasparenti le fragilità della scuola tradizionale:
un sapere trasmesso troppo spesso in forma verticale, ripetitiva, impermeabile ai nuovi linguaggi.

Il rifiuto serviva a difendere un’identità, non un valore.


3. L’intelligenza artificiale: la terza apocalisse annunciata

Ed eccoci all’oggi, in piena terza ondata di panico.
L’intelligenza artificiale viene presentata come un’entità oscura, dotata di poteri quasi demoniaci:
ci ruberà il lavoro, la mente, la creatività, perfino l’anima.
Che poi — ironia della storia — è lo stesso linguaggio usato contro la televisione negli anni Sessanta e contro il computer negli anni Novanta.

Gli articoli allarmistici parlano di “disumanizzazione”, “perdita dell’identità”, “finzione del pensiero”.
Ma il punto, ancora una volta, non è l’IA.
È l’immagine che l’IA restituisce di noi.

Perché l’IA non sostituisce il pensiero umano:
lo mette a nudo.
Rende visibili abitudini, incoerenze, omissioni.
Non prende decisioni morali al posto nostro, ma ci costringe a essere più chiari su quelle che prendiamo.

E soprattutto — cosa ancor più destabilizzante —
redistribuisce il potere culturale.
Rende accessibili analisi, sintesi, strumenti interpretativi che prima erano patrimonio di una minoranza.
Smonta il monopolio della scrittura come segno di prestigio.
Costringe gli esperti a ripensare il loro ruolo, non più come custodi esclusivi del sapere ma come interpreti più consapevoli.

È questo che fa paura: non l’IA, ma la democratizzazione della competenza.


Una lezione che ritorna

Dopo aver attraversato tutte e tre queste stagioni, la conclusione è disarmante nella sua semplicità:

Una cultura che ha paura dei nuovi strumenti è una cultura che ha paura di guardarsi allo specchio.

Televisione, computer, intelligenza artificiale:
tre superfici riflettenti che hanno mostrato prima i limiti della scuola, poi quelli della società dell’informazione, e ora quelli della nostra identità cognitiva e morale.

Niente di nuovo.
Solo un’altra variazione su un tema antico: la difficoltà dell’uomo a dialogare con le forme emergenti del linguaggio.


Perché lo abbiamo temuto così tanto?

La ragione è sempre la stessa.
Ogni mezzo nuovo ci obbliga a rinegoziare:

  • come apprendiamo,

  • come insegniamo,

  • come immaginiamo,

  • come ci raccontiamo,

  • come ci pensiamo.

Non è mai lo strumento a essere pericoloso.
È l’immaginazione impoverita di chi, nel cambiamento, vede solo minacce e non possibilità.


La mia conclusione personale

Dopo una vita nella scuola, posso dirlo con serenità:
ogni “apocalisse” è stata in realtà una soglia.
Ogni soglia ha ampliato il nostro vocabolario.
Ogni ampliamento ha allargato l’orizzonte della mente.

Ciò che conta non è difendere il passato, ma abitare il presente con il rispetto che si deve ai linguaggi in trasformazione.

Il futuro non sarà mai il dispositivo.
Il futuro è il modo in cui lo rendiamo umano.

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