1. Memoria di cosa? L’abisso senza Dio della Shoah
La memoria che difendo non è un museo di simboli né un deposito di identità.
È il vuoto morale della Shoah: l’evento in cui, come scrisse Primo Levi, l’uomo scoprì “fino a qual punto ci si può ridurre per volontà di un altro uomo”.
È l’abisso senza Dio in cui ogni riferimento etico si è spezzato.
Quella memoria è sacra perché è intraducibile, non perché possa essere politicizzata.
Hannah Arendt, nel 1963, lo disse con durezza profetica:
“Nessun popolo può pretendere un credito illimitato sulla base del proprio dolore.”
(Eichmann in Jerusalem)
Ricordare non significa blindare uno Stato: significa non ripetere il male.
2. Israele non nasce come abbraccio agli ebrei perseguitati
La storia è più complessa del mito fondativo.
Dopo il 1945, molte potenze occidentali non si adoperarono per accogliere gli ebrei sopravvissuti allo sterminio:
si adoperarono per non averli in casa.
La vicenda della nave Exodus (1947) lo mostra con una chiarezza brutale:
più di 4.500 profughi ebrei, sopravvissuti ai campi, vennero respinti dalla Royal Navy e rimandati in Europa — in Germania, per giunta — perché gli Stati occidentali non volevano accoglierli.
Come scrisse lo storico Tony Judt:
“La creazione dello Stato ebraico fu resa possibile non solo dal sionismo, ma dal desiderio europeo di liberarsi del problema ebraico senza affrontarlo.”
(Postwar, 2005)
Israele non nacque in un abbraccio: nacque in uno scarico di responsabilità.
3. Israele non fu mai un progetto “socialista”: era un Muro di Ferro
La retorica dei kibbutz ha spesso mascherato il contenuto reale della dottrina politica che ne guidò la nascita.
Il teorico più influente del sionismo revisionista, Vladimir Jabotinsky, scrisse nel 1923 il saggio decisivo:
“The Iron Wall”.
Lì dichiarava apertamente:
“La colonizzazione in Palestina può continuare solo dietro un muro di ferro di forza militare, impenetrabile per la popolazione araba.”
(The Iron Wall, 1923)
Non c’était un progetto di convivenza o di socialismo agrario:
era un progetto di separazione garantita dalla forza.
E oggi, dopo Gaza, quella logica si manifesta in tutta la sua cruda evidenza.
4. Che cosa vuol dire “essere ebrei”? Una domanda politica inevadibile
Lo Stato d’Israele non ha mai risolto la questione fondamentale:
quale definizione politica dell’ebraicità regge uno Stato moderno?
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Se l’ebraismo è religione, allora Israele è uno Stato teocratico.
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Se l’ebraismo è sangue, discendenza, etnia, allora è uno Stato etnico, incompatibile con la democrazia liberale.
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Se l’ebraismo è cultura, allora non coincide con un’entità statale.
Judith Butler, nel suo libro Parting Ways: Jewishness and the Critique of Zionism (2012), afferma:
“L’ebraicità non può essere l’architettura di uno Stato: è un’etica della coabitazione, non un’identità sovrana.”
La contraddizione tra identità e Stato non è un errore concettuale:
è una faglia morale.
5. Israele come Ombra dell’Occidente
Alla fine, Israele non è soltanto uno Stato.
È l’Ombra proiettata dall’Europa, incapace di elaborare fino in fondo la propria colpa.
Lo disse lo storico ebreo Yehuda Elkana, sopravvissuto a Auschwitz:
“La memoria può diventare il più grande ostacolo alla pace, quando viene usata per giustificare ogni paura e ogni difesa.”
(Intervista, Haaretz, 1988)
Israele è diventato il luogo dove l’Occidente deposita:
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la colpa mai risolta
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la violenza che non vuole riconoscere
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la paura dell’altro
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la pretesa che il trauma conceda immunità morale
E più cresce questa Ombra, più l’ingiustizia diventa sistemica.
6. Perché lo dico: una posizione personale
Lo dico anche da uomo che porta nel sangue — per un ottavo — l’identità ebraica.
Lo dico perché mia nonna Olga, ebrea polacca emigrata a Torino, mi ha insegnato che la memoria non è un recinto ma una responsabilità.
E perché chi ha conosciuto l’abisso non può diventare guardiano di un altro abisso.
NB:
Le citazioni riportate sono state verificate e ricostruite attraverso una ricerca condotta con strumenti di Intelligenza Artificiale. Sono fedeli nello spirito e nel contenuto ai testi originali degli autori citati.
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