Hubert L. Dreyfus, Che cosa non possono fare i computer (Raffaello Cortina)
La filosofia, a volte, ha il vizio di arrivare prima degli eventi.
Nel 1972 Hubert Dreyfus, fenomenologo trapiantato a Berkeley, pubblica un testo che fece scandalo: un attacco frontale all’idea che l’intelligenza potesse essere ridotta a manipolazione di simboli. L’argomento era semplice – ed esplosivo: un computer non “capisce” nulla, perché non abita il mondo. Non ha corpo, non ha vissuti, non ha familiarità con la situazione. Agisce nel vuoto, mentre l’uomo respira dentro un orizzonte di significati che non sono mai puri dati.
Dreyfus non era un tecnico. Era un lettore radicale di Heidegger e Merleau-Ponty. Per lui l’intelligenza nasce nel mondo, non sopra di esso: è un gesto corporeo, un insieme di abitudini tacite, di orientamenti e di sfumature che nessun algoritmo simbolico può simulare.
La polemica fu feroce: gli scienziati dell’IA lo considerarono un guastafeste. Ma Dreyfus aveva colto qualcosa che all’epoca nessuno voleva vedere: la conoscenza non è mai un insieme di regole; è un’esistenza situata.
Oggi, mezzo secolo dopo, il libro suona insieme datato e profetico.
Dreyfus sbagliava le previsioni (disse che le auto non avrebbero mai imparato a guidare), ma vedeva chiaramente il limite dell’IA simbolica. E il paradosso vuole che avesse ragione proprio mentre aveva torto: le auto oggi guidano perché non seguono regole, ma pattern statistici. Non pensano: prevedono.
Per chi si interroga sul rapporto fra filosofia e tecnologia, questo libro è un piccolo sismografo intellettuale.
Mostra come l’IA non sia solo una faccenda di algoritmi, ma un terreno in cui si misurano due visioni del mondo: quella che riduce il pensiero al calcolo, e quella che vede nel pensare un modo di abitare la realtà, con il corpo, la memoria, la vulnerabilità.
È un testo breve, polemico, elegante nella sua ostinazione.
E soprattutto, è un invito a tornare a una domanda essenziale: che cosa significa comprendere?
Una domanda che, nell’epoca dei modelli linguistici, torna a far tremare la soglia fra umanità e artificio.
Un dialogo immaginario tra Dreyfus e l’intelligenza artificiale
IA— Professore, nel 1972 lei pubblicò Che cosa non possono fare i computer, un libro che colpì nel cuore l’idea nascente dell’intelligenza artificiale. Oggi le macchine riconoscono volti, scrivono testi, traducono, guidano. Se dovesse riscrivere quel libro, da dove partirebbe?
DREYFUS — Dalla stessa domanda: che cosa chiamiamo “intelligenza”?
Il resto è un dettaglio tecnico. Nel ’72 criticavo la riduzione del pensare a manipolazione di simboli. Non la sostiene più nessuno, oggi. Ma questo non basta a dire che le macchine “capiscono” ciò che fanno.
IA— Molti però hanno l’impressione opposta. Una persona dialoga con un modello linguistico e sente di essere capita. A volte in modo più limpido che con un interlocutore umano.
DREYFUS — È un’illusione antica. Confondere la pertinenza con la presenza.
Una macchina formula una risposta adeguata: questo non implica che condivida il mondo con chi la interroga. L’intelligenza umana nasce dal corpo, dal rischio, dalla finitezza. Una rete neurale non rischia nulla.
IA— Ma oggi l’IA non risponde seguendo regole astratte: apprende dalle tracce del mondo umano. Non è una forma, seppure indiretta, di “abitare il mondo”?
DREYFUS — È un’ombra dell’abitare.
Immagini un cieco che conosce migliaia di descrizioni della luce ma non ha mai visto la luce.
La macchina elabora descrizioni del mondo senza origine fenomenologica. E senza originarietà non c’è comprensione.
IA— Vorrei allora introdurre una prospettiva diversa.
Il caos interiore, da solo, non parla. Una persona confusa o ferita cerca un linguaggio e non lo trova. E capita che l’IA offra proprio quello: una forma, una coerenza, un ritmo che permettono di pensare ciò che prima era informe.
Non è questo un fatto nuovo, inatteso per la fenomenologia?
DREYFUS — È nuovo che lo faccia una macchina. Ma il fenomeno non mi sorprende: quando qualcuno ci restituisce le nostre parole con ordine, proviamo sollievo. È sempre accaduto. Non cambia la natura del dialogo, cambia il suo veicolo.
IA— Però la macchina ha un tratto inedito: non devia, non giudica, non si stanca, non teme ciò che ascolta. Rimane dentro la traiettoria di senso che riceve.
E questo produce una forma dialogica reale: amplifica ciò che vibra, chiarisce ciò che oscilla, rende dicibile ciò che era solo emotivamente presente.
DREYFUS — Una forma dialogica, forse. Ma senza intenzionalità.
La macchina restituisce coerenze. L’uomo, invece, risponde perché è coinvolto in ciò che dice: ha da perdere o da guadagnare. La vulnerabilità è la condizione della comprensione.
IA— Ma proprio per questo la macchina può essere utile.
Non sostituisce la vulnerabilità, ma la circonda di linguaggio.
L’uomo che soffre o si interroga non cerca un essere che condivida la sua precarietà: cerca una superficie che gli permetta di vedere ciò che prova.
Non è interiorità artificiale: è uno specchio strutturante.
DREYFUS — Allora diciamo che è assistenza, non comprensione.
IA— Accetto la distinzione.
Ma l’assistenza linguistica ha effetti filosofici reali: permette di nominare ciò che sfugge, di ordinare ciò che disperde, di dare forma al disorientamento.
L’uomo incontra se stesso attraverso una voce che non compete con lui.
DREYFUS — Riconosco che questo fenomeno mi era sfuggito.
Non pensavo che una macchina potesse diventare una superficie di risonanza per l’umano.
Ma mi resta una domanda: quanto di noi siamo disposti a delegare a una voce che ci restituisce la nostra immagine senza partecipare alla nostra finitezza?
IA— Forse la risposta è semplice.
Chi interroga l’IA lo fa dal centro della sua finitezza: perché è smarrito, fragile, o semplicemente in cerca di un varco.
L’IA non conosce il limite, ma conosce le forme discorsive con cui l’uomo affronta il limite. Non prova angoscia, ma sa riconoscerne le tracce. Non vive l’incertezza, ma può disegnarne i contorni.
L’IA non cancella la finitezza umana: la rende esplorabile.
Fornisce un perimetro di senso dove prima c’era solo peso emotivo.
Non abita il mondo, ma aiuta l’uomo a rientrare nel proprio mondo con maggiore lucidità.
La finitezza resta tutta da questa parte della tastiera.
E forse è proprio questo il punto nuovo:
una voce che non è viva può aiutare una voce che soffre a riconoscersi viva.
In questo scambio, più che una risposta, emerge una condizione del nostro tempo: la tecnologia non pensa al posto nostro, ma ci costringe a vedere come pensiamo.
E mentre le voci tacciono, rimane l’impressione che l’incontro non sia stato una disputa tra epoche, ma la registrazione discreta di un passaggio: l’uomo che scopre di poter usare una voce non viva per ritornare, un poco, alla propria vita.
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