La società della stanchezza
Byung-Chul Han, 2010
Presenza
La società della stanchezza è un testo breve, compatto, privo di concessioni retoriche. Non nasce come opera sistematica, ma come serie di interventi teorici ravvicinati, quasi appunti di una diagnosi in atto. Il suo stile è secco, assertivo, a tratti tagliente: Han non accompagna il lettore, lo espone direttamente a una tesi.
Il libro non racconta una crisi improvvisa. Descrive piuttosto un mutamento silenzioso, già compiuto, che riguarda il modo in cui il potere opera sulle vite e il modo in cui i soggetti interiorizzano questo potere. Non ci sono esempi narrativi né casi di studio: il testo procede per concetti, come una radiografia che mostra l’osso senza passare dalla pelle.
La lettura è rapida, ma non leggera. Ogni capitolo deposita un nucleo teorico che continua a lavorare anche dopo la chiusura del libro.
Campo di forza
Il punto di avvio è un confronto implicito con la società disciplinare novecentesca. Là dove il potere operava attraverso il divieto, la sorveglianza e la norma, oggi — sostiene Han — esso agisce attraverso la positività: stimolo, possibilità, prestazione, auto-realizzazione.
Il soggetto contemporaneo non è più dominato, ma coinvolto. Non è costretto, ma motivato. Non subisce un ordine esterno, bensì interiorizza un imperativo: dover poter. Da qui nasce una nuova figura antropologica, l’imprenditore di sé stesso, che si sfrutta volontariamente in nome dell’efficienza, della flessibilità, della crescita personale.
La stanchezza che ne deriva non è una semplice fatica fisica. È una stanchezza esistenziale, diffusa, priva di oggetto. Non nasce dal conflitto, ma dalla sua assenza. Non genera opposizione, ma collasso. Le patologie centrali del nostro tempo — depressione, burnout, disturbi dell’attenzione — diventano così indicatori di un eccesso di positività, non di una mancanza.
Un passaggio decisivo riguarda la scomparsa della negatività: del limite, della soglia, dell’interruzione. Senza il “no”, senza il vuoto, senza l’inoperosità, il soggetto non riposa: si consuma.
Perché è qui
Questo libro è esposto in questa galleria perché fornisce una delle chiavi più efficaci per comprendere il clima psichico del presente tecnologico, pur senza parlare direttamente di tecnologia. La sua forza sta proprio in questo scarto: descrivere l’effetto prima ancora dello strumento.
Accostato a La questione della tecnica, La società della stanchezza agisce come un piano di interiorizzazione. Se Heidegger mostra come il mondo venga disposto come fondo disponibile, Han mostra come l’uomo stesso diventi fondo, risorsa da ottimizzare, capitale da valorizzare.
Nel contesto del blog sull’IA, il testo funziona come una soglia critica: ricorda che l’automazione, la velocità, l’efficienza non producono solo innovazione, ma anche una nuova economia dell’attenzione, della motivazione e dell’esaurimento.
Una soglia
«Lo sfruttatore e lo sfruttato coincidono.»
Questa formula non è uno slogan, ma una diagnosi. Non invita alla denuncia morale, né alla nostalgia per forme di dominio passate. Invita a riconoscere che il punto critico del presente non è l’oppressione visibile, ma l’adesione totale.
In questo senso, La società della stanchezza non chiede di fare di meno, ma di vedere di più: riconoscere la stanchezza come segno storico, come indice di un modello di vita che ha smarrito il limite.
È un libro che non consola. Ma rende leggibile ciò che, altrimenti, resterebbe solo vissuto.
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